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Tenuta Pietramora
SENTIRE LA TERRA

di Vins Gallico ♦

Lei non voleva andarci su quella collina sperduta, aveva provato a dirlo a sua madre, anche quando stavano per partire in un ultimo patetico tentativo, ma era stato come parlare a una sorda.
Con suo padre non aveva neppure provato, perché sapeva che il permesso di restare a casa da sola lui non gliel’avrebbe mai accordato.
“La mia bambina, la mia Elena, sembra grande, ma è pur sempre una bambina”.
Ma quale bambina? E poi non era proprietà di nessuno, pensò Elena, mentre fissava il quadro della stanza dove avrebbe dormito.
Non riusciva a capire cosa rappresentasse. Era rosso e amaranto, molto intenso. Forse erano fiori, le linee scure gli steli.

Weekend enogastronomico in Toscana, tradotto in elenese, voleva dire down puro, taglio delle vene, sfracassamento del sistema nervoso. Come se non bastasse, i suoi avevano organizzato insieme ai Fiammelli e ai Galletta, due coppie ultraquarantenni per un totale di tre figli in fascia protetta – scuola materna ed elementare. Probabilmente avevano fantasticato all’idea di una babysitter dodicenne.
Come no? Lasciateli a me quei bambini e mi chiamerete Erode, sbuffò Elena.
Non sopportava entrambe le famiglie, ma considerava che potessero mitigare l’entusiasmo eccessivo dei suoi.
Durante il viaggio dopo aver lasciato l’autostrada, sua madre e suo padre non avevano smesso un attimo di commentare pieni di ammirazione il verde che li circondava, come se non avessero mai visto un ulivo in vita loro, oppure una vigna o semplicemente una collina o una valle. Due invasati: “Ma che meraviglia”, “Guarda là”, “Che panorama”.
Elena si era concentrata sul suo telefonino, provando a non vomitare. Non soffriva il mal d’auto, era più che altro tutto quel melenso poetico che la infastidiva. Roba vecchia, roba inutile. Che andava bene per i Fiammelli e i Galletta.
Aveva appena avuto il tempo di posare lo zaino in camera, di andare in bagno, di darsi una sistemata ai capelli e poi l’avevano chiamata che dovevano andare a fare la degustazione.
Degustare era una parola tanto assurda quanto antica… molto simile a disgustare.
“Un secondo, ora arrivo” rispose continuando a fissare il quadro. Pensavano di averle fatto chissà quale onore ad averle dato una stanza tutta per sé.
”Anche a casa mia ho una stanza tutta per me”, aveva risposto a suo padre che le aveva consegnato orgoglioso le chiavi: “Ti è toccata la Kodama”.
La stanza ricordava i colori della terra. Il pavimento era in pietra, il muro grezzo, dalle travi di legno al soffitto pendeva un’amaca a forma di uovo. Invece di andare a fare quella stupida degustazione, Elena si sarebbe raggomitolata volentieri là dentro a dondolare, a stare bene con sé stessa, a sentirsi un tutt’uno di gambe e corpo e braccia e occhi. Invece doveva scappare e non riusciva a togliere gli occhi dal quadro, che l’aveva ipnotizzata.
“Elenaaaa” stavolta era la voce stridula di sua madre. “Muoviti”.

Le avevano detto di sbrigarsi e poi invece rimanevano là a perder tempo. Adesso i Fiammelli invitavano i Galletta a guardare la loro camera e anche i Galletta facevano sfoggio della propria, così anche sua madre e suo padre per non essere da meno proposero un giro panoramico nella loro stanza. I Fiammelli dormivano al piano di sopra, in una stanza che si chiamava Carnival e che in effetti aveva delle suggestioni circensi, giocose, sognate, un po’ come in un film che il padre di Elena le aveva tanto consigliato, il nome non lo ricordava più, ma il regista si chiamava Fellini, ed Elena non aveva capito bene cosa volesse da lei con quella storia. I Galletta invece avevano un’altra stanza, chiamata Dada, con un letto con una forma assurda, come se fosse un tappeto elastico sospeso nel vuoto. Sua madre e suo padre mostrarono rapidamente la loro, la Rayuela.
Sembra un peschereccio, pensò Elena e si convinse che la sua era la stanza migliore tutto sommato.

Finalmente si decisero a muoversi verso colle Fagiano. Ma non fu un dislocamento eseguito con convinzione, anzi quel continuo posticipare la partenza ebbe un riflesso anche quando le tre famiglie salirono in automobile. Chi fa strada? Chi va avanti? Lo metti tu sul navigatore?
Alla fine il signor Fiammelli fu scelto come capofila, suo malgrado.
Di nuovo i genitori di Elena ripresero con la litania sul verde e sul panorama. Stavolta però Elena era come ovattata, con quel quadro ancora in testa e con le orecchie che eliminavano le parole dentro l’abitacolo. Dopo un quarto d’ora imbucarono una strada sterrata, i cani pastore diedero il benvenuto quasi lanciandosi sotto la Passat dei Fiammelli.
Fu scendendo dall’automobile che Elena si accorse di stare male. Forse il caldo, le curve, la circostanza che proprio non ne avesse voglia. Al contrario il resto della compagnia sembrava elettrizzato, tutte e tre le coppie emanavano un’energia frizzante e i ragazzini avevano già fatto comunella.
“Dovrebbero esserci altri bambini anche qua” annunciò la signora Galletta ed Elena pensò che non era una congiura, era un incubo.
In effetti sul punto più alto della collina, proprio dove si ergeva l’unica costruzione, si riscontravano tracce abbastanza evidenti di infanzia. Di fronte ai grandi silos metallici per lo più all’ombra, c’erano appoggiate due biciclette, un pallone, due pupazzi. E alle spalle della costruzione (cos’era? una cantina per il vino o una villa? una casa o un ufficio, Elena non riusciva a capirlo, e mentre le vacillavano le ginocchia si chiedeva se quel posto sarebbe stata la sua condanna o la sua salvezza) arrivava un vociare di ragazzini portato su dal vento.
La collina infatti prendeva aria già dal mare, in fondo alla valle, e le foglie di vite si arrampicavano ai loro sostegni davanti ai riflessi del Tirreno. Sull’altro versante la collina se ne stava protetta e accoccolata.
Colle Fagiano era un punto strategico, di mare e terra, di accoglienza e chiusura, di braccia aperte e stretta calorosa.
Sia i bambini dei Fiammelli che il figlio dei Galletta puntarono all’origine delle voci.
“Elena, noi andremmo a fare la degustazione, ti dispiacerebbe dare un occhio ai piccoli?”

Le dispiaceva moltissimo.

Ma non ebbe il tempo di dirlo.

Dietro la costruzione le vigne scendevano verso valle e un sentiero conduceva a un cunicolo boschivo. Elena si avvicinò, per lo più per allontanarsi dal vociare. L’avvolse un profumo silvestre e intenso.
“Non andarci” le urlò uno dei bambini che era già là sul colle Fagiano. “È la fossa del Diavolo”.

Fu in quell’istante che Elena sentì una morsa al basso ventre ed ebbe una sensazione di liberazione e sofferenza. Guardò ai suoi pantaloncini, e poi il capogiro ebbe la meglio.
E fu nell’istante successivo che dalla fossa del Diavolo accorse una donna in suo soccorso. Aveva lunghi capelli neri e occhi chiari, sembra una Fata, pensò Elena, anche se il vestito bianco e il colorito della pelle diafano facevano da contrasto ai guanti e agli stivali di gomma che indossava. Elena si sentì sorreggere, la donna la tirò su e la prese in braccio, le disse con voce ferma: “Se ti do una cesoia e ti porto io, te la senti di farci strada?”
“Strada per dove?”
“Alla fossa”.
“Lasciami scendere. Non sono una bambina”.
La donna la depose e poi disse: “No, non sei più una bambina. Per questo devi seguirmi”.

Allora Elena testò la resistenza delle proprie gambe, aveva i muscoli flosci, ma ancora resilienti. Non dubitò neppure un istante se seguire o meno la donna vestita di bianco con gli stivaloni di gomma. La donna si dava da fare con le cesoie, tagliava rami, recideva arbusti, si apriva dei passaggi nella vegetazione e ogni tanto si voltava verso la ragazza.
“Dobbiamo stare attente ai cinghiali”.
Elena annuì.
“Per sapere se stanno arrivando devi sentire la terra, non soltanto la devi ascoltare… la devi sentire”.
Elena la vide quasi quasi strisciare mentre si chinava sotto alcuni rami appuntiti.
Arrivarono all’acqua all’improvviso e accanto al rivolo la donna le indicò i pantaloncini.
“Lavateli”.
“E poi come torno?”
“Ci penso io”.

***

“Ecco, sta riaprendo gli occhi…” disse suo padre. “Elenuccia, ci hai fatto prendere un colpo”.
Elena era distesa nel letto della stanza del B&B.
Sua madre le raccontò che l’avevano ritrovata svenuta in una delle vigne e che avevano dovuto interrompere la degustazione, chiamati dalle urla degli altri bambini. Evidentemente il caldo, lo sforzo…
“E poi sei diventata una signorina” le disse strizzando l’occhio.
Comunque ora se stava meglio poteva raggiungerli nella cantina del B&B. La struttura comunicava con una torre e alla base della torre c’era un tinello, dove la proprietaria aveva spostato la degustazione, dopo il malore di Elena.
“Vi raggiungo dopo” disse Elena. “Spiegatemi la strada”.

“Il Brumaio lo facciamo con uve di Sangiovese nei terreni esposti verso il mare…”
A Elena quel timbro parve vagamente familiare. Scendeva piano piano le scale che conducevano al tinello.
“Lo lasciamo a fermentare naturalmente e poi a macerare per quasi tre settimane, dai sei ai nove mesi nei silos che avete visto e poi tre mesi in bottiglia. Avvertirete un sentore di frutti rossi, una nota floreale di viola e sicomoro e tanto minerale… La sentite la terra?”
Fu allora che Elena vide il volto della proprietaria del B&B, che era anche la proprietaria della Tenuta Pietramora.
La donna la salutò con un sorriso ed Elena rimase a bocca aperta.
“Stai meglio?”
Il padre di Elena fece le presentazioni. “Questa è la nostra Elena, e lei è Gaia, che ci sta spiegando le caratteristiche di questo vino, il Brumaio”.
Elena si sedette, osservò la tavola imbandita di affettati di cinghiale, di formaggi, di fegatini. Non aveva fame.
Gaia si avvicinò a lei.
“Come va?”
Elena non voleva crederci, non era possibile, ma era la stessa donna, la signora in bianco con stivaloni e cesoie, c’era lei in quel sogno lucido che aveva avuto mentre sveniva.
“Bene, credo…”
“La Kodama è il posto migliore che tu possa avere adesso…”
“C’è un quadro là dentro”.
“L’ho dipinto io” fece Gaia.
“Non ho capito cosa rappresenta. Anzi me l’ero proprio chiesta”.
Gaia sorrise appena: “Rappresenta una tappa, di quando si cresce” disse. “Penso che il vino, la terra, ma anche il sangue siano tutti elementi veri, che non mentono mai, che sono come sono davvero, senza bisogno di fingere”.
Elena sorrise a sua volta. Guardò i figli dei Fiammelli e dei Galletta imbambolati davanti a un iPad, e osservò i propri genitori, insieme a quelle altre due famiglie, convenzionali, e noiose, e rituali, e borghesi, e pensò che lei era in mezzo, come su un filo sospeso. Ora non era più una bambina, il suo primo giorno di ciclo l’aveva proiettata nel mondo degli adulti.
“Vuoi assaggiarne un sorso?” le propose Gaia. “Solo per capire cosa intendo”.
Si bagnò appena le labbra. Il sapore non le piacque, ma capì cosa intendeva Gaia.
Aveva sentito la terra, e in quel gusto ebbe l’impressione di avvertire un’eco.
Un’eco che saliva dalla fossa del Diavolo. E si arrampicava su per il colle Fagiano. E poi nei tini e nella bottiglia. Era un’eco di sapore, vero.
Che le suggeriva una cosa: “Elena, prova a crescere vera, sincera, non come vogliono gli altri. Cresci come me…”
Gaia la guardò come se avesse sentito quell’eco.
Riprese il bicchiere e sussurrò alla ragazza: “Ci vediamo al prossimo sogno”.