Tenuta Il Corno MISURE
di Vins Gallico ♦
Non è vero che tutto è misurabile.
Dipende da chi stabilisce l’unità di misura e l’elemento da misurare, chi definisce i parametri e persino gli obiettivi.
Per questo ho fiducia nella vaghezza, in chi bada al contenuto piuttosto che alla forma, in chi pratica la meditazione. Mi alleno tutti i giorni con ginnastiche dolci che mutano nome di continuo in base a un’errata pronuncia orientale che segue mode e stagioni. Mi sono prescritta una dieta da sola senza la minima conoscenza delle componenti caloriche e non controllo mai le etichette dei vestiti. Li provo ad occhio e poi me li sento sulla pelle.
Anche il giubbotto da motociclista l’ho comprato così.
“Sei tu l’addetta alla ricerca dell’energia multidimensionale?”, chiese la voce proveniente dalla nuvola di polvere.
Mi ero appena tolta il casco. La mia Aprilia Pegaso 650 scalciava ancora, la marmitta era rovente. Balzai giù imitando Calamity Jane che scende da cavallo, inclinai la moto e dovetti controbilanciare con tutto il peso del corpo per adagiarla sul cavalletto. Avevo ancora le gambe anchilosate dal viaggio. Nelle ultime curve, quelle che da Firenze costeggiavano le colline del Chianti, fino alle pendici di San Casciano, non le avevo sentite più.
Era stato un viaggio strano, attraverso una terra di mezzo, fra bellezza e bellezza. Avevo pensato che persino qua in Toscana, fra un gioiello come Firenze e le campagne olivastre c’erano periferie industriali e anonime. Non luoghi senz’anima. E poi tornavi alla bellezza.
“Allora sei tu l’addetta alla ricerca dell’energia multidimensionale?”
A rivolgermi la domanda, una volta dissolta la nuvola di polvere, apparve una bambina che non aveva più di dieci anni.
Le sorrisi. Non mi stupiva che una contessina potesse parlare così.
“Direi di sì, anche se spesso mi chiamano in altro modo: ghostbuster, acchiappafantasmi, fattucchiera. In realtà percepisco quanta energia magnetica c’è nell’aria… e attualmente ce n’è un pochino. La mamma dov’è?”
“È all’agriturismo”.
Voltai le spalle alla villa sulla quale campeggiava una torre che aveva tutta l’aria di essere lì da un po’, e notai la struttura rustica ma elegante dall’altro lato dell’uliveto. La strada provinciale tagliava in due la proprietà. Non era quello l’ingresso originale della casa.
Non feci in tempo a raggiungere la strada che una donna eterea dall’acconciatura botticelliana mi stava venendo incontro.
“Dottoressa Savoldi?”
“Contessa”.
Ci salutammo, ognuna dal proprio ciglio della strada.
La contessa mi fece segno che avrebbe attraversato lei. Mi attenni alla consuetudine che il cliente ha sempre ragione e l’aspettai dal mio lato.
“Mi chiami pure Maria Giulia”, disse stringendomi la mano.
“Anche lei… può chiamarmi Giulia”.
La contessa, anzi Maria Giulia, rimase un istante perplessa.
Poi mi indicò la torre.
“Venga con me”.
Quando la contessina capì cosa aveva in mente la madre, provò ad accodarsi, ma Maria Giulia la rispedì dalla tata.
Ci ritrovammo in una piccola corte, impossibile da intravedere dalla facciata, ma che in qualche modo avevo intuito. Si respirava un odore intenso di cenere, umidità e legno. Guardai dal basso la torre, sberciata da cinque finestre. La parte superiore era cieca, con giganti graffe arrugginite. Maria Giulia mi precedette sulle scale in muratura per i primi due piani, senza ringhiera, e poi in legno. Oscillanti. Mi preoccupavo perché la sua gonna rigonfia non sembrava l’abito ideale per la nostra ascesa. Mi ricordai del film di Hitchcock, quello della donna che sale sul campanile e il protagonista non la può inseguire perché soffre di vertigini.
Una volta in cima Maria Giulia mi scrutò inorgoglita, non era puro e bieco sciovinismo il suo. Mi indicò la linea d’aria verso Firenze e poi Siena, Pisa e Lucca, i declivi del Chianti, i cipressi in direzione di San Casciano, le increspature delle Alpi Apuane. Gli uliveti e le vigne di proprietà della famiglia Frova.
“I miei antenati han fatto fortuna con la ferrovia e il baco da seta. D’origine siamo mezzi lombardi, veneti, emiliani. I Frova son venuti giù in Toscana nell’Ottocento. Comprarono questa casa e quest’appezzamento in Val di Pesa direttamente dagli eredi del Granduca Leone Strozzi. Gli Strozzi a loro volta, prima di farci la residenza estiva del Granduca, avevan preso il podere dai Del Corno, un’antica famiglia di Pistoia.
Le racconto queste cose perché forse le posson tornare utili…”
“Non è una questione di conoscenza. Anche se certe volte inquadrare il contesto aiuta. Comunque non si preoccupi, ho studiato prima di venire”.
Mi ero preparata soprattutto sulla battaglia di Semifonte, la città avversa a Firenze che dopo quattro anni di assedio era stata rasa al suolo nel 1202. Bell’accumulo di anime in pena. E poi c’era la leggenda di Santa Cristina in Salivolpe, i cui resti avevano peregrinato a lungo da una cripta all’altra.
E tornando ancora più indietro nel tempo quella era zona etrusca. Gli Etruschi la sapevano lunga riguardo a morte, necropoli e dialoghi ultraterreni.
In effetti percepivo qualcosa. Niente di veramente significativo. Avevo ricevuto una sorta di piccola scossa, una lieve vibrazione, soprattutto quando Maria Giulia si era portata una mano sul petto a coprire un ciondolo bluastro.
Tornammo al piano terra e in un’ala l’odore diventò più intenso. Maria Giulia mi mostrò una fornace con un aggrovigliato sistema di condutture pneumatiche e le cantine per il vino dove troneggiava lo stemma dei Frova, blu tagliato dal giallo, su quello bianco e rosso dei Del Corno e su quello giallo degli Strozzi.
“Non la vedo più da un pezzo. Non era una presenza angosciante, anzi mi dava una certa serenità”, disse Maria Giulia mentre mi mostrava la sala barricata. Con la coda dell’occhio intravidi uno stemma templare.
Ce n’erano di ambiguità e mistero in quei cunicoli.
Aspettai che tornassimo fuori per chiedere dove avrei dormito. Maria Giulia voleva darmi la stanza dove le era apparso per anni il fantasma che adesso sembrava svanito. Al punto che non riusciva più a descrivermelo.
“Lo sa che di solito mi chiamano per l’opposta ragione?”
Maria Giulia sorrise e mi versò un bicchiere di vino.
“Lo porti con sé mentre indaga”.
Mi concessi un giro della casa, una testa di cervo imbalsamata mi osservava dalla cima delle scale, e nell’ampio salone centrale, accanto alla cucina, il pianoforte risuonava delle note della contessina. Mi resi conto che soprattutto in presenza di madre e figlia percepivo una vibrazione, senza che riuscissi davvero a distinguerla.
Maria Giulia continuò a raccontarmi delle terre, del fantasma (stavolta specificò che si trattava di donna), di un vino denso e scuro come l’inchiostro che la sua famiglia produceva. Era talmente carico da essere chiamato Colorino.
Restai sveglia a lungo quella notte. Chiusi gli occhi intorno alle tre, dopo aver fissato per ore il baldacchino che sovrastava il mio letto.
Niente.
Non sentivo più nulla.
Nessuna vibrazione.
La mattina dopo contessa e contessina erano già via. Fu la tata ad annunciarmi che potevo tornare a casa. Potevo anche contattare la signora se avessi avuto novità.
Non ne avevo novità, ma avevo fatto un viaggio di andata e ritorno, e la benzina della mia Aprilia non era gratis.
Provai a richiamare la contessa Frova nei giorni successivi alla mia visita. Non rispondeva al telefono o alla mail. Provai anche a chiamare la tenuta Il Corno, l’agriturismo di sua proprietà al di là della strada.
Quando mi rispondevano, non me la passavano mai e blateravano qualcosa di poco comprensibile.
Credevo nella meditazione, nelle ginnastiche dolci, nell’armonia del cosmo, nella profonda comunione nelle anime, ma il mio padrone di casa pretendeva un affitto ogni fine mese. Spedii per posta la fattura una settimana dopo essere tornata dalla Val di Pesa.
Nessun riscontro, a parte una lapidaria mail in cui lo staff de “Il Corno” mi scriveva che non aveva idea di quale fosse la mia richiesta finanziaria.
Non si prende così per i fondelli Giulia Savoldi, mi dissi fra me e me.
Salii a bordo dell’Aprilia Pegaso, diretta verso quell’anfratto in Toscana. Certe questioni è meglio risolverle di persona.
Imboccando il vialetto, sullo sfondo rividi la torre. Al rombo dei miei quarantotto cavalli si affacciò una signora.
“Scusi, cerco la contessa”.
La donna si tolse i guanti da giardinaggio, e avanzò verso di me. Prima che potessi raggiungerla, sfoggiò un sorriso compiaciuto.
“L’ha trovata allora… E lei invece chi sarebbe?”
Mi presentai e le raccontai il motivo della mia visita.
La donna mi guardò e poi disse: “Sono io Maria Giulia Frova e non ho la più pallida idea di chi abbia visto qui. Vivo in questa casa praticamente da quando sono nata. Anzi venga…”
Mi condusse nella sala pranzo dell’agriturismo, un mastodontico tavolo in legno era illuminato da un fascio di luce e proiettava a terra un’ombra da congegno futurista.
La seconda Maria Giulia Frova che mi capitava di incontrare in quel luogo mi invitò a bere del vino.
Fu allora, una di fronte all’altra, che osservai al suo nobile collo lo stesso pendaglio che avevo visto nell’altra Maria Giulia.
La contessa si accorse di essere osservata.
“Le piace il mio diadema? È lo stemma di famiglia in miniatura”.
Annuii dicendo che lo sapevo.
“Guardi, anche mia nonna ne portava uno” e mi indicò il quadro alle sue spalle. Era la donna che avevo conosciuto la prima volta, con lo stesso pendaglio che ora splendeva al collo dell’attuale contessa.
“Sua nonna è deceduta?” mi permisi di chiedere.
“Ormai da molto tempo, anzi a ragionar bene mi è sempre apparsa in sogno parecchie volte. Soltanto con il tempo ha diradato le visite”.
Fu allora che ci raggiunse di corsa uno dei figli della contessa. Era un ragazzino dall’aria vispa e gli occhi buoni.
“È lei l’acchiappafantasmi?”, mi domandò.
“Più che altro sono un’addetta alla ricerca dell’energia multidimensionale. Insomma se c’è un fantasma, solitamente lo sento. E qui sento poco o nulla”.
Fu allora che provai una nuova sensazione, una specie di scossa di terremoto.
In un piccolo specchio del quadro, vidi la mia immagine riflessa.
“Di che epoca è questo quadro?”
“Fine Ottocento”, rispose Maria Giulia, “realizzato probabilmente usando anche il vino, il Colorino, come pittura”.
Non è vero che tutto è misurabile.
Dipende da chi stabilisce l’unità di misura e l’elemento da misurare, chi definisce i parametri e persino gli obiettivi.
E improvvisamente chiusi gli occhi e gustai il sapore del vino in bocca.
Non aveva senso trovare una spiegazione, ma soltanto godere di quegli attimi.