Grandi Cru della Costa Toscana IL CURATORE
di Nicolò Mazza deʼ Piccioli ♦
«Da ragazzo mi intrufolavo nel museo cittadino e trascorrevo i giorni a rimirare le opere. Lì imparai ad amare ogni sfumatura, ogni segreto, ogni firma nascosta degli autori. Non me ne sarei mai andato, ma purtroppo non ero maggiorenne, quando i miei decisero che sarei partito per tentare fortuna in America». «E hanno avuto ragione loro, a giudicare dalla vista di cui si gode da questo studio. New York è letteralmente ai suoi piedi e per questo le domando: pensa sia nata l’opera che la convincerà a tornare in attività?». «Lo speravo. Ma dopo così tanto tempo, temo proprio che non esista».
L’intervista finì quando la segretaria consegnò al suo capo il solito plico di richieste. Fra quelle, si nascondeva una lettera anonima che avrebbe sconvolto il corso dell’esistenza di Anthony Pontecorvo, il più potente curatore d’arte del mondo.
Pochi minuti dopo, il giornalista pubblicò le anticipazioni del servizio a cui l’intervista avrebbe fatto da cornice: sei intere pagine culturali dedicate ai successi dell’uomo che per mezzo secolo aveva dettato le regole del gioco nel mondo dell’arte.
L’indomani, i lettori avrebbero scoperto che, nello svolgere la sua professione con rigorosa perizia, Anthony non si era fatto scrupoli a gettare in rovina blasonati collezionisti, svelando false attribuzioni michelangiolesche, o scovando gioielli caravaggeschi in anonimi salotti di ignari possessori di tesori.
E se al suo occhio era sufficiente uno sguardo, al suo giudizio bastava una parola: le principali gallerie di tutto il mondo erano disposte ad abbandonare un artista fino al giorno prima portato in palmo di mano, se solo Pontecorvo non lo riteneva più degno d’attenzione. Un sopracciglio alzato poteva far fallire un’asta di Christie’s, oppure, viceversa, mandarla alle stelle.
Ma dopo tanto tempo, niente più lo stupiva, niente più lo affascinava come ai bei tempi in cui da ragazzo s’intrufolava nella pinacoteca cittadina. Così, un bel giorno, ancora all’apice della sua fulgida carriera, Anthony annunciò che non si sarebbe più dedicato al suo lavoro finché qualcuno non gli avesse sottoposto un’opera davvero meritevole d’attenzione. In altre parole, finché un quadro o una scultura non lo avesse fatto innamorare di nuovo.
Da allora, Pontecorvo iniziò a recarsi nel suo studio, spoglio di qualunque arredo, attendendo che Donna, la sua fedele segretaria, gli sottoponesse le nuove richieste.
Tra i mittenti più assidui figuravano direttori di prestigiosi musei e galleristi ambiziosi, ma anche giovani artisti in cerca di notorietà. Di solito, con una sola occhiata, Anthony archiviava la maggior parte delle missive. Più di rado la segretaria lo sorprendeva a inforcare gli occhiali per condurre verifiche più accurate. Ma mai, prima di quel giorno, le era capitato di vedere disegnarsi sul suo volto quello che, seppur mitigato dal suo naturale contegno, poteva definire un vero e proprio segno di intrigato interesse.
«Posso vedere anche io?» domandò incuriosita.
«Non c’è niente da vedere. Dice solo che il soggetto non si può fotografare per intero e che l’unico modo che ho per rendermene conto è di recarmi di persona a vedere».
Il curatore si concesse del meditabondo e diffidente silenzio e poi riprese: «Mi prenoti un volo».
«Quando vuole partire?»
«Subito. E il ritorno, quanto prima».
Fuori dal terminal degli arrivi internazionali, Anthony venne accolto da un sole caldo fuori stagione e da Michele, un ometto gentile e loquace che si presentò come il suo personale autista per tutto il tempo in cui si sarebbe trattenuto in Toscana.
«Si accomodi» disse aprendogli la portiera posteriore dell’auto. «Immagino che sarà stanco, dopo il lungo viaggio. È tanto che manca dall’Italia?»
Pontecorvo non seppe rispondere di preciso, ma si affrettò a puntualizzare che non aveva tempo da perdere e che appena il suo misterioso ospite gli avesse sottoposto questa fantomatica opera, sarebbe tornato immediatamente negli States.
Dopo che l’auto si fu lasciata alle spalle gli incroci d’asfalto della zona aeroporto, davanti agli occhi inaspettati di Anthony si schiuse una campagna color pastello.
«Perché non ha preso l’autostrada? Le ho detto che ho fretta di arrivare».
Michele rispose con un sorriso faunesco che, a quell’ora, al casello c’era ingorgo e che conveniva passare per la provinciale, ma il famoso curatore d’arte già non lo stava più a sentire, immerso com’era nella preoccupazione di aver commesso un errore da principiante a partire così alla cieca. E se si fosse trattato di una truffa? Un modo per farsi pubblicità sfruttando il suo nome?
L’auto costeggiò le morbide anse di un ruscello, prima di accostare e fermarsi. Pontecorvo calò sul naso gli occhiali scuri che aveva indossato per ripararsi dalla luce e scosse la testa. «Perché ci siamo fermati?»
«Da qui ci tocca proseguire a piedi».
«E le valigie?»
«Non si preoccupi, si consideri in vacanza, signor Antonio, e mi segua, passiamo dalle cave».
Guardando in alto, Mr. Pontecorvo non riusciva a vedere la fine delle pareti di tufo che lo sovrastavano a destra e a sinistra. Il sentiero lungo e stretto era umido e sconnesso, ma al tempo stesso pieno di fascino naturale, attraversato com’era da un vento leggero e profumato.
Impronte di muli impresse nel terreno – segno indelebile di antichi transiti – attirarono la sua curiosità. «Questa è terra di etruschi» esordì l’autista, prima di lasciarsi andare nel racconto di grandi avventure ambientate proprio fra quei percorsi, un tempo considerati sacri. Chi le avesse scavate e perché, rimaneva un mistero bello da contemplare.
Occorse una bella scarpinata, prima di raggiungere il paese. Anthony si appoggiò al cartello che dava il benvenuto a Pitigliano per riprendere fiato. Le sue ossa erano stanche, ben più del suo spirito, ma non per questo rinunciò a lamentarsi con Michele per avergli mentito: c’era una comoda strada asfaltata che li avrebbe portati lì senza alcun problema. Di questo scherzo se ne sarebbe lamentato col suo ospite, non appena si fosse degnato di mostrarsi.
È facile immaginarsi la delusione di Mr. Anthony quando il proprietario del locale presso cui aveva appuntamento gli comunicò che il mittente della lettera non lo avrebbe potuto raggiungere prima di sera.
Pontecorvo non era mai stato preso in giro in quel modo in vita sua. Uno scherzo di pessimo gusto, una perdita di tempo e di soldi per la quale, potevano giurarci, avrebbe anche sporto denuncia.
Il ristoratore allargò le braccia, dandogli ragione. Ma aggiunse di aver visto coi propri occhi l’opera per cui era stato convinto ad attraversare l’oceano, e poté giurargli che se avesse avuto la pazienza di aspettare un solo altro giorno, non se ne sarebbe pentito.
Parole, solo parole. Pontecorvo chiamò Donna, rimasta negli USA, per farsi prenotare un biglietto sul primo volo disponibile.
Finito il pranzo, Michele consigliò al curatore italoamericano di fare una visita, prima di ripartire, alla sinagoga.
«Una sinagoga, qui?»
Forse stuzzicato nel suo spirito curioso, più probabilmente addolcito dal vino appena gustato, che aveva lo stesso profumo del vento delle cave, seguì il consiglio.
Certo non s’immaginava che tra quei paesini inerpicati nella bassa Toscana, potessero intrecciarsi tante storie, tante culture.
Stava ancora riflettendo su questo, quando il solito Michele, che lo guidava diligentemente in direzione dell’aeroporto per la via più breve, espresse il suo disappunto per la rapida ripartenza. «Era organizzato un ricevimento, questa sera a Lucca…»
Un vero peccato, aveva ragione. Inoltre, nonostante il fisico ancora prestante, alla sua età sobbarcarsi due viaggi intercontinentali ravvicinati era sfibrante.
Quest’ultima fu la scusa che scelse di usare con Michele – e con se stesso – per concedere un’occasione di riscatto al suo ospite desaparecido.
In quell’America che Anthony aveva eletto a sua patria adottiva, non esistevano ville antiche come quella che lo aveva accolto quella sera. Anche l’aria sembrava carica di un’energia diversa, che veniva dal passato e dal mare, poco lontano.
Si concesse un calice di vino che gli facesse compagnia mentre si aggirava ammirato per le opulenti stanze. Dopodiché, gli sembrò doveroso prenderne un secondo da degustare passeggiando nel giardino illuminato dalla luna, vicino alle terre che di quel vino erano state la culla. Si perse nel parco, camminando senza meta, solo godendosi il momento. Quando giunse alla sponda di un piccolo lago quieto, si sporse per riflettersi nello specchio d’acqua e, per un solo istante, gli sembrò di vedere il volto di una donna bellissima.
Sussultò quando sentì dei veloci passi alle sue spalle. Era Michele, che ansimava per la corsa. Lo aveva cercato dappertutto, con un messaggio urgente da riferirgli.
«No, non me lo dire» lo anticipò Anthony, permettendogli di riprendere fiato, «l’uomo del mistero non sarà presente nemmeno stasera. Ho indovinato?»
«Sì, infatti».
Pontecorvo sorrise beffardo.
Sulla via del ritorno, passeggiando senza fretta, Anthony domandò al suo nuovo amico se conoscesse delle storie anche sulla villa che li ospitava, così Michele colse l’occasione per raccontare la leggenda di Lucida Mansi: una donna bellissima e troppo innamorata di se stessa, che per non invecchiare fece un patto col diavolo, il quale le donò eterna giovinezza, ma la condusse con sé all’inferno.
«Quanto era bella, questa donna?» chiese Anthony.
«Bella quanto queste colline che ci circondano, così dicevano. Chissà, magari la incontriamo, perché qualcuno sostiene che certe notti il diavolo, mosso a compassione, le permetta di tornare a fare visita alla sua amata terra, ma solo le persone in grado di riconoscere il bello anche a occhi chiusi, possono vederla. Che vuole che le dica… fantasie popolari».
L’anziano curatore d’arte annuì, preferendo tenere per sé il fugace incontro che aveva avuto sulla riva del laghetto.
Il mattino seguente Anthony si svegliò leggero, forse ringiovanito. Un biglietto scritto a penna e infilato sotto la porta della sua stanza, lo pregava di perdonare i continui rinvii e le offese arrecate, ma prometteva che si sarebbe rimediato a tutto quella sera stessa, presso Bolgheri.
Antonio, come veniva chiamato da Michele, aprì la finestra e respirò, provando un prurito di fastidio quando il cellulare iniziò a vibrare ripetutamente. Era Donna.
Comunicò con soddisfazione che il nuovo rientro era stato pianificato come richiesto e che un taxi era già lì ad aspettarlo.
Pontecorvo la ringraziò per la solerzia e cambiò discorso: «Mai sentito parlare di Carducci?»
La segretaria, sulle prime, non era certa di aver compreso la domanda. Per forza – pensò lui – Donna era americana doc, lui invece aveva studiato lì in Italia, e di cipressi alti e schietti serbava ancora piacevole ricordo.
Se il famigerato anfitrione non si fosse degnato di mostrarsi nemmeno quella sera, non sarebbe stata comunque una giornata sprecata o deludente. Chiese alla sua segretaria la cortesia di cancellare la prenotazione del volo e riagganciò senza lasciarle il tempo di esprimere tutta la preoccupazione per questi continui cambi di programma.
Congedato con una lauta mancia il taxi prenotato da Donna, Anthony caricò da sé le valigie nel bagagliaio dell’auto di Michele, poi si fece dare le chiavi e si mise a sedere al posto di guida. Il percorso, questa volta, l’avrebbe deciso lui. Dopo tutto non aveva nessuna fretta di scoprire che per l’ennesima volta gli avrebbero dato buca.
Guidò senza itinerario, seguendo l’istinto e il profumo della strada.
Non pensava a nulla, mentre osservava il panorama scorrergli accanto come fosse la scenografia di un film. Non pensava a nulla, mentre rispondeva a Michele, curioso di sapere cosa lo avesse convinto a ritirarsi dalla sua professione. Non pensava a nulla quando la strada si accostò a un’immensa scultura circolare. La riconobbe subito come fosse una vecchia amica: si trattava di uno dei celebri cerchi di Mauro Staccioli. Anni prima, dall’alto del suo studio newyorchese, anche lui aveva contribuito a promuoverne il successo per il mondo. Aveva sempre amato quelle forme potenti, ma adesso che ne poteva ammirare una nel suo ambiente naturale, nella terra natale del suo creatore, riusciva a sentire un’energia nuova e vivace scaturire dall’opera stessa.
Come incorniciate dal cerchio di Staccioli, le vigne si avviluppavano su per la collina, formando come un mantello di vite per la città di Volterra.
Anthony capì in quel momento dove si sarebbe fermato per pranzo.
Satollo e soddisfatto, questa volta l’esperto d’arte lasciò che a guidare fosse Michele. Avrebbero percorso l’ultimo tratto dell’itinerario, per raggiungere il fantomatico ospite. Lungo il tragitto, Anthony dormì come non gli accadeva da tempo, sognando.
Quando riaprì gli occhi, trovò due file di cipressi ad indicargli la via per il castello.
Sassi bianchi e polverosi, e vegetazione verde fulgente. Anche il ciottolato delle vie intitolate a Nonna Lucia e alle altre donne del poeta brillava di una luce viva e naturale, che sembrava disegnata dal tocco magico di un vero pittore. Di più rispetto alla tela di un quadro, quel panorama, sul cui orizzonte si andava a poggiare il rosso del sole, aveva l’odore salino del mar Tirreno e il sapore del vino che in quelle terre era nato.
Anthony era comodo, seduto di fronte al tramonto. Non domandò a Michele che fine avesse fatto il suo ospite, sarebbe stato inutile. Lasciò che parlasse della sua famiglia che, come tante altre in quella terra, i vitigni li aveva piantati e curati, e visti crescere. Lasciò che parlasse e intanto si guardava intorno, sentendosi di nuovo come da ragazzo, nella pinacoteca del suo paesino, innamorato delle bellezze che lo circondavano.
Michele parlò finché le sue parole non furono sommerse dal rollio cacofonico di un trolley a quattro ruote che proveniva dal grande arco del castello, sotto cui bisognava necessariamente passare per accedere al centro di Bolgheri.
Era Donna. Quando lo vide, solo un accenno di sollievo scalfì la preoccupazione che le segnava il viso: Anthony teneva tra le mani un calice, tinto del rosso rubino di un cru nato e cresciuto in quella stessa costa toscana. Cosa ci facesse lì il suo datore di lavoro era per lei ancora un totale mistero.
Anthony le fece segno di raggiungerlo e lei allungò il passo già svelto.
«Che bella sorpresa! Come mi hai trovato?»
Donna non era in vena di convenevoli.
«Il suo telefono».
«Ah, già. Pensavo di averlo spento».
«Il GPS funziona comunque. A New York si è venuto a sapere del suo viaggio. Hanno un sacco di domande per lei, vogliono sapere… Io ho preso tempo, ma non può più rimandare».
Michele le offrì il suo vino, ma lei rifiutò con un gesto della mano cortese e deciso.
«Sarebbe lui l’anonimo della lettera?»
Anthony alzò le spalle, chi poteva dirlo.
«E questa incredibile meraviglia dell’arte? Almeno di quella sappiamo qualcosa?»
Il curatore sorrise, la invitò a sedersi.
«Non abbiamo tempo, l’aereo parte fra poche ore».
«Se prendiamo il successivo?»
«Come l’ho trovata io, la troverà qualcun altro. Prima o poi, a qualcuno dovrà rispondere. Non potrà rimandare in eterno, gli Stati Uniti l’attendono».
«Ok, va bene» Anthony guardò Michele, la sua fedele segretaria e l’orizzonte. Sapeva anche lui che prima o poi si sarebbe dovuto rassegnare e ripartire. Sapeva anche che non avrebbe mai potuto spiegare a parole quale fosse il tesoro che aveva scoperto, o riscoperto. «Ora però siediti un attimo. Fammi salutare questo posto».
Spalle al muro, si sedette anche lei ad ammirare l’opera segreta dalla quale il suo capo non riusciva a distogliere gli occhi.
Antonio aveva lo sguardo assorto. Risentì le voci dei suoi genitori mentre discutevano dell’opportunità di far partire il loro unico figlio verso il Nuovo Continente. Rivide i quadri della piccola pinacoteca di provincia dove aveva imparato ad amare i colori e provò come un bruciore nel petto, ricordando il giorno in cui dovette abbandonarli. I suoi genitori avevano deciso per lui.
Michele stappò un’altra bottiglia di quello stesso cru.
Fu allora che si sprigionarono tutti i sapori di quella terra, di quel mare, di quell’aria e di quel sole che ora anche Donna avrebbe imparato ad amare.
Non ci fu bisogno che venisse espresso a parole: le fu subito chiaro che non sarebbero più ripartiti.