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Hotel Suite Inn
E FU SOLO AMORE…

di Ornella Fiorentini  

I.

Con il tono sommesso e intrigante riservato alla fiaba, scioltasi i lunghi capelli castani, mia madre iniziava il racconto, che ormai sapevo a memoria:
“Ti chiamammo Paolo perché eri bello come il tuo avo quando nascesti nella casa colonica accanto all’imponente rudere del Castello di Ghiaggiòlo, la fortezza militare dell’Appennino tosco romagnolo, a cui nel tredicesimo secolo faceva capo il feudo di Malatesta di Verrucchio. Sembra che proprio tra quelle mura Paolo e Francesca lessero il libro di Lancillotto e Ginevra… e, colti da profondo turbamento, si scambiarono il primo bacio d’amore”.
Non riuscivo a prendere sonno nella stanza disadorna, che sapeva dell’essenza di vaniglia di mia madre. Sul soffitto era affisso l’economico calco in gesso dell’antico stemma nobiliare in oro e rosso dei Malatesta. Al ramo povero di quella potente famiglia nobiliare mio padre Gualtiero aveva scoperto di appartenere, commissionata una decennale ricerca araldica che gli aveva prosciugato buona parte dei risparmi. Agricoltore per passione e necessità, gote rubizze, maniche arrotolate sugli avambracci muscolosi, di buona lena lavorava nel podere dall’alba al tramonto. Aveva un unico desiderio: appendere il mio diploma di laurea nella stanza del blasone. Sapevo che non avrei potuto deluderlo. A scuola m’impegnavo. Suscitavano la mia curiosità i sassi colorati della montagna. Me ne riempivo le tasche che il mattino dopo svuotavo sul banco senza tuttavia mai incontrare l’approvazione della maestra. A dieci anni compresi di essere un incompreso, ma non mi scoraggiai poiché il motto dei Malatesta era l’elefante indiano non teme le zanzare ovvero: chi è forte e valoroso non si preoccupa dell’avvilente inadeguatezza del prossimo suo. Lo stridìo della civetta, appollaiata sul diroccato bastione ottagonale, segnava il tempo. La fioca luce della lampada illuminava il lavoro di cucito. Seduta su una scranna impagliata, mia madre per incanto si trasformava nella vecchia nutrice del castello di Ghiaggiòlo, depositaria di ogni segreto e confidenza dei signori che lo avevano abitato. A occhi aperti sognavo di essere un prode cavaliere medievale che, cinto della spada argentea, difendeva i deboli e i diseredati. Del mio cavallo bianco bardato a festa vedevo le froge fumanti e udivo lo scalpitio sul ciottolato dell’antico maniero mentre la fida nutrice narrava gli eventi occorsi ai Malatesta. Rievocava il Medioevo, un tempo ormai remoto che invece, per un figlio unico avvezzo a scorazzare in solitudine e libertà nei verdi rivoli d’erba della vallata sottostante, assumeva la vivida dimensione di una leggenda. Mi ci immedesimavo.
“Soprannominato anche da Dante, Mastin Vecchio, Malatesta di Verrucchio era un abile politico, un condottiero, nonché padre dello sciancato Gianciotto e di Paolo il Bello. Ebbe il tuo omonimo la sventura d’innamorarsi perdutamente della splendida moglie del fratello maggiore. Alquanto infelice, poiché costretta in giovanissima età a sposare un uomo rozzo e vendicativo, Francesca da Ravenna, ricambiò il cognato con uguale passione. Sorpresi teneramente abbracciati nel sonno dal geloso Gianciotto, i due amanti vennero passati a fil di spada. Gocce del loro sangue caddero sul libro galeotto di Lancillotto e Ginevra. Se nella Divina Commedia il Sommo Poeta non avesse rievocato la storia dei due amanti condannati all’Inferno per la loro lussuria, probabilmente del duplice delitto si sarebbe persa la memoria. Nel Canto quinto, come due colombe che volano al nido, le anime di Paolo e Francesca giungono da Dante, che, sopraffatto dall’emozione, sviene,” terminava mia madre con voce grave.
Mi dava un bacio sulla fronte, spegneva la lampada e usciva dalla stanza. Tra me e me rimuginavo che i romanzi d’amore potevano provocare dei veri disastri. In futuro mi sarei astenuto dalla loro lettura, sebbene ammirassi incondizionatamente Lancillotto; mi sarei concentrato invece sulla creazione del mondo: avrei studiato le rocce, le montagne e i fossili. Mi convinsi che anch’io, quale discendente di Paolo Il Bello, avrei un giorno incontrato la mia Francesca. Auspicavo però che la fanciulla fosse nubile per condurla io stesso in sposa e, in tal modo, evitare seri guai. Attesi di conoscere la mia damigella per tutta la durata delle medie inferiori, ma di colei che mi avrebbe catturato il cuore, non ne scorsi neppure l’ombra. Rimasi deluso, ma risolsi che sarei stato più fortunato al liceo. Dall’isolato monte del castello di Ghiaggiòlo, mio padre Gualtiero mi spedì in un collegio di città. Crebbi in altezza. Allo specchio mi compiacevo che la mia avvenenza non fosse offuscata dai brufoli. I capelli neri, da inanellati, divennero diritti ad eccezione del ciuffo ribelle che mi scendeva sulla fronte. Il naso ben fatto, la mascella volitiva e gli occhi di un azzurro cupo facevano colpo sul pubblico femminile, che mi guardava giocare a basket. Dopo la partita, i compagni di squadra mi presentavano le ragazze disposte a uscire con noi; si chiamavano però Sara, Sue Ellen, Sharon, Antonella, Lucia, Noemi, Camilla, ma mai Francesca. Dedussi che avrei dovuto avere ancora pazienza. Forse l’unica donna del mio destino non era sportiva poiché schiva, pallida, romantica e appassionata di storia medievale come ero io. Da Forlì mi trasferii a Bologna per frequentare la facoltà di Geologia. Il basket mi venne a noia. M’iscrissi a una scuola di musica popolare dove si insegnavano anche le danze medievali. Con gioia imparai il saltarello, la ronda, la carola: balli dai ritmi incalzanti, se non addirittura forsennati. Dovevo mantenermi in forma per fare bella figura nelle rievocazioni storiche che si tenevano periodicamente nelle piazze del centro storico. L’Ars Saltandi imponeva che smettessi di fumare. Immaginai che Lancillotto fosse stato parco. Diventai astemio e vegetariano con grande preoccupazione di mio padre Gualtiero che, nel contado di Ghiaggiòlo, aveva fama di essere un esperto nel rito dell’uccisione del maiale. Il pranzo dell’ultimo Natale, che passai a casa dove già si brindava alla mia laurea, era tutto a base del malcapitato suino di turno. Il lezzo della carne arrostita alla brace era per me insopportabile. Quando il genitore mi vide bere acqua, mangiare di gusto solo delle patate lesse e una fetta di formaggio, pensò che, a causa della laboriosa, non ancora finita tesi sui fossili dei geositi friulani, mi fossi ammalato. Lo rassicurai di essere in ottima forma fisica. Per convincerlo ballai davanti ai commensali un saltarello dal ritmo incessante. Mi osservò in silenzio; scosse il capo. Aveva gli occhi lucidi. Brusco, mi chiese:
“Ma… a Bologna, hai la morosa?”
“No. Non ho ancora incontrato la mia Francesca” risposi tranquillo.
Gli mancò l’aria; divenne paonazzo. Chiamò mia madre, che accorse. Le disse:
“Temo… che nostro figlio… sia una svista di Dio”.
Non si accorse il buon Gualtiero di emettere una sentenza. Filai nella mia stanza. Feci la valigia mentre la prozia Esterina, donna sanguigna dell’Appennino e forte come l’aceto urlava al nipote Gualtiero con quanto fiato aveva in gola:
“È tutta colpa della tua mania araldica se Paolo non mangia e non beve come un normale cristiano per essere aristocratico!”
Quello stesso giorno me ne andai da Ghiaggiòlo per non farvi più ritorno.

II.

Tornai in treno nella gelida e tetra Bologna più avvilito che mai. A un passo dall’agognata laurea in Geologia, non potevo più mantenermi agli studi. Non sapevo che pesci prendere, ma conclusi che, di dignità, nella vita di ognuno ce n’é una sola. Non si vende e non si baratta. Mi sarei arrangiato. Appena entrato con il morale a terra nell’appartamento deserto dei miei coinquilini, squillò il cellulare. Fui tentato di non rispondere all’ignoto numero di telefono fisso che apparve sul display. Ero certo che si trattasse di un errore. Chi poteva fare gli auguri di Natale a un uomo tutto sbagliato qual ero io? Il cellulare si chetò, ma poi riprese a suonare. Con un moto di stizza, risposi controvoglia:
“Non c’è più nessuno che mi abita dentro…”
“A mio parere, te la cavi molto bene con il saltarello. Anche a me piaceva ballare nelle aie quando ero ragazza. M’innamorai. Mi fidanzai, ma non ci sposammo perché era scoppiata la guerra e Mario doveva partire per il fronte. Quando lo ammazzarono, piansi tutte le lacrime che avevo. Scelsi poi di rimanere… single, si dice così?, per fedeltà all’idea dell’Amore. Caro Paolo, ti capisco. La tua Francesca arriverà quando meno te l’aspetti”.
“Prozia Esterina…” balbettai incredulo e commosso.
Il sole, che aveva inondato la vallata della mia infanzia, ricominciò a splendere ad un tratto nell’anonimo e buio cucinotto in disordine.
“Ci penso io a te, d’ora in poi. Iban… si dice così? Mandami il tuo codice Iban” disse e riattaccò.
Ubbidii e il bonifico arrivò sul mio conto corrente. La prozia Esterina, che aveva sempre vissuto in una bicocca dall’aspetto di piccolo fortilizio in collina, aveva evidentemente dato fondo alla riserva delle sterline d’oro della Regina Elisabetta, per lei icona di stile, che aveva acquistato nel corso di una vita e messo da parte. Rinfrancato dalla sua generosità, tornai subito di buon umore e ripresi a seguire le lezioni di coreutica medievale. Alla fine di marzo mi laureai con il massimo dei voti; la settimana dopo risposi a un annuncio sul giornale, sostenni con successo il colloquio, fui assunto a patto che cominciassi a lavorare nella discarica, dissestata per la subsidenza nella bassa emiliana del Reno, il lunedì successivo. Non ne avevo l’intenzione, progettato da settimane un viaggio in Friuli per visitarne i geositi ancora incontaminati. Il direttore dell’ufficio personale non mi concesse una proroga. Se non avessi preso servizio nel giorno convenuto, mi avrebbe depennato dalla graduatoria degli aspiranti candidati. Non era la mia massima aspirazione respirare i miasmi di quella discarica per millequattrocento euro al mese. Dissi che dovevo riflettere. Gli avrei fatto sapere. Mi alzai e lo salutai. Mi fissò con un moto di disappunto che gli increspò il labbro inferiore. Emise un’altra sentenza:
“Paolo Malatesta, temo che… lei sia un sognatore. Non c’è niente di peggio oggigiorno”. Partii per Udine il giorno seguente a bordo della vetusta Panda rosso fuoco, prestatami dalla prozia Esterina. Nel baule avevo sistemato il piccone, il cordame, il casco con il lume frontale, qualche sacco di iuta per la raccolta dei campioni di roccia, gli scarponi e la torcia. Una volta arrivato a destinazione, avrei seguito un itinerario naturalistico di conclamata importanza, studiato fin nei minimi dettagli: la sorgente carsica del Fontanone di Timau nel versante sinistro della Valle del Bût, il laghetto di Avostanis nel cuore delle Alpi Carniche, la Grotta di Attila a Pian di Lanza, il Bosco Bandito sovrastante Cleulis, l’Alta Valle del Tagliamento con l’ampia ansa di Ampezzo, nel cui museo geologico avrei ripercorso la geomorfologia del territorio dal mare del Siluriano fino all’Orogenesi Alpina. In Friuli una vacanza straordinaria mi attendeva tra calcare, dolomia e selce. Avrei toccato il cielo con un dito se l’avessi potuta condividere con la mia Francesca, ma risolsi che non fosse giusto rattristarmi. L’avventura nell’estremo lembo orientale d’Italia sarebbe iniziata dal Colle di Udine, che, secondo la leggenda, fu costruito con gli elmi sovrapposti dei guerrieri di Attila dopo l’espugnazione di Aquileia nel 452 d. C. Prenotai una camera all’Hotel Suite Inn, ricavato all’interno di un palazzo storico di Via del Toppo. Fui conquistato dalle foto in internet: travi grezze nei soffitti, arredi di acero e rovere, scale di legno, romanzi a disposizione dei clienti; gli ambienti apparivano accoglienti e luminosi. Da non sottovalutare la ricca colazione. Mi sarei rimpinzato di miele di apicoltura locale, torte, marmellate bio, frutta. Avrei gustato i formaggi con il pane appena sfornato e lasciato i salumi agli ospiti onnivori. L’Hotel Suite Inn sarebbe stata la base ideale da cui partire il mattino per spingermi a Nord Est e scoprire la bellezza mozzafiato dei paesaggi carnici. Al ritorno a Udine la sera, una doccia calda e un buon sonno ristoratore nel lettone, che si preannunciava comodissimo, mi avrebbero rimesso in sesto. Mi attendevano lunghe camminate alla ricerca dei miei amati sassi, della grigia pietra piasentina dalle venature bianche, estratta nella zona di Torreano, rinomata anche per i numerosi ettari di viti pregiate. Su un opuscolo illustrato lessi che dai succosi grappoli si producono la Malvasia, la Ribolla Gialla, il Picolit, il Refosco, il Sauvignon e il Pinot Grigio nella cantina denominata Delizie di Bacco; mi sarei assicurato una bottiglia di ogni varietà rossa e bianca quale souvenir da recapitare, insieme con la Panda alla fine del viaggio, alla prozia Esterina che non era mai stata astemia. Avrei esplorato il greto dei torrenti, analizzato i sedimenti dei laghetti di alta quota. Quando avevo telefonato all’Hotel Suite Inn, mi aveva risposto Giuliana; avevo avuto l’impressione che la proprietaria fosse schietta, semplice e ospitale. Chissà perché me la immaginai sorridente, alta e ben fatta come le donne dei Celti che, prima dell’avvento dei Romani, si erano stanziati nelle pianure per sfuggire alle intemperie del clima montano e dedicarsi alla coltivazione dei campi. Non si scompose quando mi vide entrare a pomeriggio inoltrato grondante di pioggia, sceso dal Colle di Udine, in bermuda grigioverdi, felpa mimetica, scarponi e con lo zaino da campeggio strapieno in spalla. Comprensiva, sorrise e mi si aprirono le porte, non di un hotel, ma di tutto il Friuli. Mi offrì un austroungarico Früchtetee al mirtillo e qualche biscottino, che mi rifocillarono. A caso scelsi un libro dallo scaffale. Mi capitò tra le mani un romanzo sul ciclo arturiano e mi ci immersi. Lessi di Re Artù, di Tintagel, di Avalon e di Lancillotto… innamorato di Ginevra. A memoria ripercorsi gli endecasillabi del Canto quinto dell’Inferno; il racconto accorato di Francesca, seguita dall’ombra di Paolo, mi commosse ancora a tal punto che mi sentii Dante in persona. Sprofondai in un deliquio amoroso. Provai la stessa, sensuale sofferenza di Paolo il Bello. Annaspai nella poltrona. Ansimai, quasi persi conoscenza. Quando levai lo sguardo dal libro, si materializzò davanti a me l’immagine di una sconosciuta fanciulla dalla lunga veste giallo oro. I capelli erano del colore del grano maturo. Un nastro di velluto color papavero li legava in una treccia. Al collo portava una collana di corallo. Tra le mani stringeva un libro antico dal dorso istoriato. Compresi che fosse il romanzo di Lancillotto e Ginevra. Sussultai. Risuonarono le note di una quadriglia medievale e la leggiadra visione svanì. Invocai più volte il nome della mia dama. Forse mi addormentai, complice l’atmosfera di caldo benessere che si respira in ogni angolo dell’hotel. Quando poco dopo mi svegliai dal torpore, udii la voce preoccupata di Giuliana chiedermi:
“Tutto bene?”
Accennai di sì.
“Paolo, ma… Francesca quando arriva?” indagò, premurosa.
Inarcai le sopracciglia, morso dal dubbio. Non osai deludere Giuliana, pronta ad accogliere anche un’eventuale innamorata.
“Presto,” risposi in un sussurro prima di salire nella stanza assegnatami.

III.

Furono giorni magici, che vissi come un viandante d’altri tempi su sentieri scoscesi, impervi; visitai grotte, caverne, stavoli abbandonati e giunsi a bere l’acqua gelata delle cascatelle zampillanti. Mi davano spontaneamente il buongiorno i rari passanti che incontravo. Ero confortato dalla naturale gentilezza dei friulani che parlano tra loro una lingua incomprensibile. Mi ronzavano in testa le leggende udite sugli sbilfs: creature simili a folletti, preposte a custodire i boschi e ad allontanare chi osa profanarli. Possono essere dispettosi e irriverenti con gli intrusi. Un vecchio contadino mi consigliò di tenere una moneta di ferro in tasca come lasciapassare, se avessi incontrato lo sbilf vestito di rosso. Intuito che si trattasse del diavolo, di monete di ferro, ne tenevo tre in tasca da esibire all’occorrenza. Mai avrei immaginato però che la realtà potesse superare la fantasia quando, prima di rientrare a Udine, al crepuscolo di un sereno giorno di aprile, decisi di fermarmi ad ammirare lo smeraldino lago di Cavazzo. Avevo sentito descrivere l’inquietante Buse dai Pagans, un enorme antro a forma di cupola vicino alla forra del Rio Chianevutta. Anticamente serviva da rifugio agli idolatri che depredavano i villaggi cristianizzati della valle. Volevo sincerarmi di persona come fosse, affascinato dall’idea di percorrere a ritroso la storia dell’Alto Medioevo di cui, sono convinto, si sappia ancora poco o nulla. L’apertura della caverna mi apparve come la bocca spalancata e afona di un gigante. Accesi la luce al led del casco da speleologo ed entrai. Una biscia d’acqua mi sgusciò tra i piedi. Dopo alcuni passi nell’oscurità, mi meravigliai d’intravedere in lontananza alcune vivide lingue di fuoco. Udii anche una voce. Pensai che si trattasse di un altro impavido escursionista che avesse acceso un piccolo falò per riscaldarsi. Mi addentrai nella grotta umida fino a raggiungere un vano di pietra simile a un anfiteatro naturale. Il mio cuore sobbalzò. Parve fermarsi quando vidi in carne e ossa la soave fanciulla con la lunga veste giallo oro apparsami in sogno giorni prima. Per non spaventarla, rimasi seminascosto da un masso. L’ovale del volto splendeva di eterea beltà. Provai un languore sconosciuto, certo di essere infine al cospetto della mia Francesca. Sospirai senza articolare suono alcuno. La vidi fare qualche passo di danza, arrestarsi. S’inchinò davanti a un pubblico immaginario. Strinse al seno un consunto libro color tortora e, con voce limpida, recitò dal Canto quinto dell’Inferno:

Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante.

Barcollai dall’indicibile emozione di aver trovato nel geosito meno frequentato del Friuli e forse dell’intera Italia la donna che, trepidante, per ben cinque lustri avevo atteso. Non seppi trattenermi oltre. Mi palesai alla luce del falò dall’anfratto carsico in cui mi ero celato. Avanzai verso di lei. La guardai con la rispettosa devozione che un trovatore o un chierico vagante avrebbe mostrato nei confronti della principessa salvata dalle fauci del drago ad opera di San Giorgio. Rimpiansi di non poterle offrire una rosa rossa. Cercai di contenere la ridda di sentimenti contrastanti che mi agitavano il petto in tumulto. Con un ampio gesto del braccio, come se fosse un elmo con il pennacchio, tolsi il casco da speleologo, chinai il capo e semplicemente dissi:
“Sono Paolo Malatesta”.
La giovane donna indietreggiò; si portò le mani al volto. Sgranò gli occhi di fiordaliso; si velarono di una stilla di rugiada. Non era pianto, ma gioia trattenuta.
“Paolo il Bello, fratello del rozzo Gianciotto?” osò.
“Ne sono il discendente” rimarcai con un filo di voce.
M’inginocchiai al suo cospetto. Le presi la mano delicata e la baciai. I sassi aguzzi mi punsero le rotule scoperte, indossavo i soliti bermuda, ma non avvertii dolore. Per tutto l’oro del mondo non avrei lasciato quella dolce presa.
“Io sono Francesca Veronese, attrice per passione. Mi sono appena diplomata all’Accademia Teatrale Veneta. Domani sera reciterò il Canto quinto dell’Inferno al Castello di Udine. Sono venuta qui per fare la prova generale e concentrarmi nella parte della mia omonima”.
Presi tempo:
“Io invece sono geologo. Mi ammalia la magnificenza delle montagne friulane. Vorrei essere una guida alpina speciale… e inventare la professione del geomenestrello per gli escursionisti”.
Aguzzai la vista. Constatato che Francesca non portava la fede nuziale, tirai un sospiro di sollievo. Non avrei fatto l’atroce fine del mio antenato. Il falò si estinse. Il buio ci colse mano nella mano. Ci sentimmo dei privilegiati dalla sorte. Riaccesi la luce al led del casco. Camminammo verso l’uscita dell’antro. Condussi Francesca nella fresca notte di luna piena che ci rimescolò i sensi con il tenero profumo della primavera. Ci ritrovammo l’uno nelle braccia dell’altra. Ci scambiammo il primo bacio d’amore.
“Dove alloggi?” m’informai.
“Dovrei dormire da parenti di Udine stasera…” rispose poco convinta.
“Giuliana, la proprietaria dell’hotel ti aspetta anche se non sapevo quando ti avrei incontrata. Dormiremo nella mia camera…”
Francesca mi guardò di sottecchi. Precisai, indulgente:
“Io… mi sistemo sul divano. Presumo che tu, nel lettone, voglia rimanere sola… e concentrata per il debutto di domani sera”.
“Sì!” disse entusiasta.
Giunti al parcheggio del lago di Cavazzo, le nostre mani si sciolsero a fatica. Complici, ci sorridemmo prima di salire sulle rispettive utilitarie. Partimmo per Udine, certi che si trattasse solo di Amore. Quello vero, con la A maiuscola.