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Tenuta Campo al Signore
ALTI E SCHIETTI

di Valeria Corciolani ♦

Alza la testa e inspira l’odore del mattino. Poi socchiude gli occhi e assapora: terra umida, erba tagliata, legno giovane e frugando appena ecco arrivare anche il tenero dei germogli con quello più pungente dei pampani, insieme all’aroma austero dei cipressi che colando giù dalla collina di Bolgheri si fonde con il salmastro che sale dal mare. Una roba da perderci i sensi. Per chi sa apprezzarla, ovvio. E lui, modestamente, nelle questioni di “naso” se la cava alla grande.
Si allunga per preparare i muscoli alla corsa e lancia uno sguardo in su, verso la cima della collina e le facciate chiare del borgo di Castagneto Carducci, addossate una sulle altre come se sgomitassero per un posto in prima fila a godersi la vista mozzafiato, indeciso sul giro da fare, quindi scrolla le spalle e imbocca il sentiero fra le vigne della Tenuta Campo al Signore, tanto per cominciare, poi si vedrà. Inizia a correre, con il vento a scompigliargli i ricci, l’aria frizzante a pizzicare gli occhi e mille odori che lo assalgono da ogni parte, molti li riconosce subito, altri invece fanno capolino all’improvviso, inaspettati e nuovi.
Tipo questo.
Rallenta, distratto da quello che il suo naso non riesce ancora a inquadrare e che pare strattonarlo oltre l’antico cancello appena restaurato, precisamente verso il campo con le cataste di paulownia, che è un nome piuttosto buffo per un albero, forse è per questo che se lo ricorda. A dire il vero potrebbe anche lasciar perdere, ma il pensiero evidentemente gli attraversa il cervello senza aderire, perché lui continua a correre fino a raggiungere lo spiazzo con le cataste di legna. Lì l’odore nuovo è tanto forte da posarsi sulla lingua, untuoso e greve, per questo forse si blocca, quasi si aspettasse di vederselo sbucar fuori con un “Ehilà!”. Ma no, non c’è nessuno. Tranne l’odore, ovviamente.
«Astoooon! Astooon…» la voce di Valentina gli arriva chiara e nitida. Lui sa che dovrebbe andare, altrimenti lei si preoccupa e chiama Luca e tutto diventa un casino.
Si guarda intorno, dubbioso.
Poi la curiosità è troppo forte, si accuccia e inizia a scavare.
«ASTOOOON!» il vibrato da basso tuba di Luca rimbalza tra le viti come una schioppettata.
Aston alza gli occhi al cielo. Niente, gli tocca proprio andare. Scrolla la terra dai ricci, dà una grattatina all’orecchio, lancia un ultimo sguardo intriso di rammarico alla buca e se ne va.
Ecco spiegato perché, in un terso mattino di primavera, tra zolle d’erba secca e grumi argillosi sollevati dallo scavo di un entusiasta e determinato lagotto romagnolo, ora affiora un grosso, panciuto e inequivocabile pollice.

L’ex ispettore capo Jules Rosset scala la marcia della sua vetusta ma affidabile Citroen e imbocca il lungo viale, scrutando con un velo di irritazione “i cipressi che a Bolgheri alti e schietti, van da San Guido in duplice filar”, che la sua maestra delle elementari – donna dall’indulgente affabilità di un T-Rex con l’emicrania – gli aveva fatto imparare a memoria a suon di scappellotti. Dopo più di quarant’anni però li ricorda ancora, per cui forse la strategia di sollecitare il sistema limbico a sganassoni, per quanto discutibile, potrebbe avere un senso: suo figlio Alberto fra meno di tre mesi ha la maturità, nessuno l’ha mai sfiorato con un dito e l’unica poesia che riesce a recitare per intero è “M’illumino d’immenso”, quindi…
Jules sospira e avvicina il naso al parabrezza. Deve ammettere però che dal vivo ’sto viale ha un suo fascino, sarà per via della luce che gioca a rimpiattino fra i tronchi, o per il nastro grigio dell’asfalto a srotolarsi in un saliscendi che pare non finire mai, ma si scopre a provare un brivido d’emozione che quasi (solo quasi) gli fa rivalutare l’ostinata determinazione della “cara” maestra.
Sbadiglia e stropiccia la faccia che pare ancora più lunga e spigolosa del solito, con il ciuffo biondastro a ciondolargli sulla fronte più floscio di una lattuga bollita. C’è da dire che ha macinato i trecento e passa chilometri che separano il borgo toscano da Monforte d’Alba, dove si è trasferito quando ha deciso di lasciare la polizia, senza neppure il conforto di un caffè e solo per dar corpo all’idea un po’ balzana, maturata davanti a un calice di rosso e le chiacchiere del suo amico anatomopatologo Orlando Calabrò, uno che ciancia e ride spesso a sproposito, e infatti lo aveva cassato subito. Invece poi, ripensandoci… È che deve ancora prenderci un po’ le misure, in fondo è un valdostano porcavacca, un montanaro a cui è toccato trapiantarsi nel salmastro della Liguria e da lì passare alle Langhe, per seguire… boh, diciamo un’improrogabile spinta a mollare la vita di prima per riappropriarsi della Vita. Così ha rilevato una libreria vista vigneto, dove uno può acquistare o anche semplicemente leggere e ascoltare vinili da collezione mentre centellina un Barolo Chinato all’ombra dei pampini, e per questo ora eccolo qui, ad allargare i suoi orizzonti vinicoli nella culla del famoso Sassicaia e “annusare” la produzione locale. Jules parcheggia e disincaglia il lungo corpo ossuto dal sedile, cercando di non badare all’eco che risuona nelle vuote profondità del suo stomaco. Di solito, quando ha da fare, nutrirsi è l’ultimo dei suoi pensieri, ma forse è il caso di mettere sotto i denti qualcosa prima di stramazzare e dar spettacolo.

Arranca fra la moltitudine di turisti che intasano le viuzze lastricate di pietra e i locali, alla ricerca di un posto tranquillo dove sedersi e terminare in pace il suo panino finocchiona e pecorino. Certo, l’essere un antico borgo nato attorno a un castello medievale sprigiona fascino già di per sé, ma sono gli antichi edifici in pietra chiara con i fiori alle finestre, le bottegucce, i profumi che si allargano per ogni anfratto, a dare la sensazione di trovarsi in una scheggia di paradiso incastonata tra viti e ulivi, al di fuori dal tempo e dallo spazio. Davvero notevole, non fosse che è tutto talmente perfetto da mettergli quasi soggezione.
Continua ad addentare il suo pranzo e intanto sguscia sulla destra, ritrovandosi a costeggiare un muro, con un arco che si apre su un sentiero di ghiaia bianca. Jules si pulisce il mento dalle briciole e sporge dentro la testa, scrutando incuriosito il fazzoletto di terra con piantate fra l’erba piccole croci di ferro, tutte diverse. Ma l’informazione non fa in tempo a farsi strada nel suo cervello che un signore con gli occhiali spessi, i capelli bianchi tagliati a spazzola e un pesante giaccone sigillato fino al collo gli si piazza davanti, scrutandolo a testa inclinata e la liscia imperturbabilità di una mucca d’alpeggio.
«Ehm, questo sarebbe…» biascica Jules, con il boccone che si fa strada a fatica giù per l’esofago.
«Il cimitero di Nonna Lucia» lo interrompe lui, «la nonna del poeta Giosuè Carducci, nata a Seravezza in provincia di Lucca nel millesettecentosettanta» e prosegue snocciolando preciso preciso ogni data, evento, postilla con voce piatta e sguardo a nuotare in un altrove. Jules per due volte prova a inserire qualche domanda, ma la piena di informazioni non gli concede spazio di manovra, quindi si tappa la bocca e ascolta, sbirciando il cartellino plasticato che penzola sul giaccone dell’uomo. “Ascanio”, legge, mentre apprende la storia del cimitero, di Bolgheri e pure quella dell’abbastanza detestata “Davanti a San Guido”, che però ora, declamata come un mantra dal signor Ascanio, gli risuona dentro simile a un “Om” e quasi (solo quasi) gli piace.
Dopo mezz’ora sono seduti tutti e due sulla panca di legno dentro la piccola cappella, Ascanio che alterna citazioni interminabili a pensieri suoi, distinguibili solo dal cambio di tono che allenta la modulazione monocorde per salire di mezza ottava. Jules invece gli racconta di sé, chissà, forse per via di quel suo sguardo che pare vedere oltre e solo ciò che conta davvero.
«Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi e neppure le bottiglie» lo interrompe Ascanio, appena Jules accenna al suo passato di ispettore. «Qui a Bolgheri però il diavolo c’ha le sembianze di Nostro Signore e le pentole non le fa: le prende. In testa». Mentre lo dice si tocca la fronte e per un attimo il suo sguardo pare abbandonare quel passato lontano che gli trapunta i pensieri per focalizzarsi qui, nel presente, in un punto oltre l’arco di ingresso del cimitero.
«Il diavolo?» sonda cauto Jules, che ha la sensazione di trovarsi al cospetto di una sorta di rivelazione, ma non è sicuro di cogliere per intero il farfugliare fitto di Ascanio.
«Lei mi porta il tè caldo nella tazza vera quando fa freddo, perché io sono guida, non guardiano» continua imperterrito e fuori contesto Ascanio.
«Lei?»
«La Vergine Lippina» annuisce Ascanio, «e il diavolo ha fatto male a venir qui, perché lo si sa: la Madonna stiaccia il diavolo sotto al tallone. E il diavolo mòre

Lungo i pochi chilometri che separano Bolgheri dalla Tenuta Campo al Signore, Jules non ha fatto altro che rimasticare la chiacchierata con Ascanio, e non sa neppure lui spiegarsi il perché. E sarà forse per la famigerata “scimmia dell’indagine” di cui blatera sempre Calabrò, sostenendo che se fai tanto di nascerci non te ne liberi più, ma ora si ritrova con il cellulare aperto sull’immagine della Madonna “Lippina” del Filippo Lippi che la ricerca su Google gli ha appena stanato. Una bionda ed eterea fanciulla, dagli occhi acquosi e la fronte bombata che forse gli ricorda qualcuno, ma la cosa finisce lì. O almeno dovrebbe. Tamburella le dita magre sul volante, scoprendosi a fare i conti con la scossetta alla base della nuca che ben conosce e ora, più della sopracitata scimmia, gli pare di aver appena risvegliato una torma di pantegane. Sbuffa, infilando il cellulare in tasca e aprendo la portiera: deve smetterla, porcavacca, lui è qui per farsi un giro tra i vigneti, qui per assaggiare i vini di Campo al Signore e sapere di più su questa azienda che, fra le tante, ha solleticato la sua curiosità. E poi c’è pure la faccenda non trascurabile delle auto. Già, perché lui, Jules Albin Rosset, ex ispettore di polizia e montanaro da generazioni, in vita sua ha avuto a che fare solo con trattori, utilitarie e veicoli d’ordinanza, ma da sempre cova il desiderio di posare gli occhi (e magari pure le natiche, ammettiamolo) su di una mitica Morgan. E nello straordinario parco d’auto d’epoca di Campo al Signore, c’è nientepopodimenoché una Morgan a tre ruote nera con il muso a squalo, che gli ha fatto subito squagliare le giunture dall’emozione.
Per cui apre la portiera, inspira l’aria profumata di terra, erba e glicine fiorito, spazza via i pensieri di madonne, diavoli, pentole, cipressi, e suona all’ampio cancello.

Jules osserva controluce le trasparenze calde e rosate del vino, poi lo fa girare respirandone la fragranza come gli hanno insegnato a fare e lo assaggia. È consapevole di indagare dentro ai vini seguendo lo stesso pragmatico intuito di quando faceva il poliziotto, ma ecco che, dietro struttura, sapidità e fruttata freschezza, stana un ricordo di pesca e scorza d’arancia che riescono a sorprenderlo. Come lo hanno piacevolmente sorpreso Luca e la moglie Valentina, motore e cuore di questa azienda. E capisce anche come mai hanno scelto di mettere, letteralmente, la faccia sull’etichetta di questo Rosato Bolgheri DOC, perché ogni sorso racconta di loro, della loro filosofia di vita e soprattutto del loro Sguardo, fatto di eleganza, lavoro, studio e sperimentazione, certo, ma è la Passione, quella maiuscola, a compiere la vera magia. Jules l’ha annusata appena il cancello si è aperto sul bianco casale con il tetto di tegole rosse, accoccolato come un gioiello sul verde scrigno del giardino da una parte e viti, orto e ulivi dall’altro, dove ogni dettaglio narra di amore, dedizione, cura. Anche loro, come Jules del resto, non avevano mai pensato alla campagna, lui consulente aziendale e lei a capo di una società di produzione e organizzazione di eventi legati al mondo dell’arte, invece guarda qui!
«Eh, un giorno, tornando da un viaggio di lavoro, sono passato per Bolgheri e me ne sono innamorato» allarga le braccia Luca, con il piglio pratico ed entusiasta di chi sa cogliere sempre il buono e il bello dalla vita. E sarà che per indole o deformazione professionale Jules non ne è mai stato capace e quindi ammira spassionatamente chi riesce a farlo, o forse per via di quell’aria da Mangiafuoco dal cuore grande, ma gli pare di conoscerlo da sempre. Come Valentina del resto, che infatti sorride con l’elegante soavità di un Merlot e lascia cadere un inequivocabile: «Avere la fortuna di possedere una terra e non rovinarla è la più bella forma d’arte che si possa desiderare», che a Jules apre il cuore.
«Ah, visto i suoi trascorsi liguri, non può non assaggiare questo» lo sbircia sornione Luca, mostrandogli una bottiglia con il vetro ricoperto di… Jules arriccia la fronte, scrutando perplesso i rilievi che hanno tutta l’aria di essere incrostazioni marine.
«Esatto» ride Valentina, interpretando correttamente la sua faccia basita. «Il primo vino UnderWater al mondo affinato in subacquea a oltre 50 metri di profondità in fondo al mare, arriva proprio da Castagneto Carducci e dalla produzione di Campo al Signore.»
«Cioè, mi volete dire che…» sbatte le palpebre Jules.
«Che le bottiglie, invece di affinarsi in cantina, lo fanno in fondo al mare e precisamente in Liguria, nelle acque di Cala degli Inglesi a Portofino.»
«Ah…» esclama piuttosto scettico Jules, che la sua esperienza con il salmastro ligure non è stata delle più idilliache, ma la curiosità è impastata nelle sue cellule più del DNA, quindi non si tira indietro.
«Lo ammetto, sono sinceramente colpito» sospira appagato, posando il calice.
«E ora che ne dice di un giro tra le vigne?» propone la giovanissima Elena, impeccabile e solare responsabile dell’accoglienza, con il suo sorriso aperto e contagioso. Ma come apre la porta a vetri della zona degustazione, irrompe un bolide color caramello.
«Aston, buono!» Esclama Valentina, cercando di agguantarlo.
«Ehi, tu devi essere la famosa mascotte!» ridacchia Jules, accucciandosi ad accarezzare il ricciuto lagotto che non sa decidersi fra saltelli di ben venuto o annusargli le pedule. «È davvero irresistibile» bofonchia, lasciandosi leccare la faccia, «se ce lo portassimo dietro?»

Per questo ora Jules e Aston stanno passeggiando tra i vigneti e gli ulivi. In realtà i nove ettari della Tenuta li hanno già girati in lungo e in largo, hanno visto il piccolo orto botanico, il lodge per gli ospiti, il curatissimo giardino, conosciuto Andrei, con le sue mani larghe come pale e gli occhi buoni, che cura la terra e ogni zolla e singola pianta come se fosse una creatura sua. E sì, è anche riuscito a posare non solo occhi e natiche sulla splendida Morgan a tre ruote di Luca, ma pure mettersi al volante di una fiammante MG A spider rossa, sdiliquirsi per un’Alfa Romeo SS bella da togliere il fiato, e arrendersi davanti al seducente splendore della verde Jaguar XK 140, incredulo della fortuna di poter contemplare tutta ’sta meraviglia in una botta sola. Poi i suoi ospiti sono rientrati in casa, mentre lui ha deciso di restare a godersi ancora un po’ colori e profumi del luogo. Allunga il collo a sbirciare la striscia luminosa del mare, che gli pare quasi un miraggio, abituato com’è alle colline piemontesi. Ora in realtà tornerebbe indietro, ma Aston sembra instancabile e ogni tre per due cerca di strattonarlo oltre il campo di ulivi che creano un lungo e argenteo viale che parte dal cancello del Settecento appena restaurato.
«Ehi, Aston,» cerca di trattenere il guinzaglio, «guarda che non ho mica vent’anni, porcavacca, se continui a tirare finisce che mi smonto come un Lego, e poi tocca a te raccattarmi tra le zolle, sappilo e…» ma niente, Aston pare volerlo portare a tutti i costi là, oltre gli ulivi della Tenuta, in un campo pieno di cataste di legna dall’aria abbandonata.
«Ecco, sei contento ora?» ansima Jules, piegato in due per gli ultimi dieci metri di corsa non prevista.
Ma Aston non lo ascolta e tuffa il muso ai piedi di una catasta, sollevando zampate di terra tutto intorno.
«Ehm, non credo che Valentina e Luca sarebbero contenti di saperti qui a scav…» poi si blocca, percependo il refolo unto e greve di un odore che ben conosce.
Afferra Aston per il collare e lo tira via dalla buca senza troppi complimenti.
E lo vede.
Un largo e panciuto pollice, attaccato a una mano, che a sua volta risulta provenire da un polso e…
«Merde de la vache putain…» sibila tra i denti.
Poi con un sospiro fruga nella tasca e afferra il cellulare.

«Ispettore Rosset, ci siamo quasi…»
«Ex ispettore» borbotta torvo Jules, «mi sono ritirato più di un anno fa.»
«Sì, certo» annuisce il Sovrintendente Giusti del commissariato di Cecina, come se la faccenda non lo riguardasse, ben deciso a spartire la grana di un cadavere sepolto sotto una catasta di paulownia con chiunque, fosse anche un ex poliziotto amabile quanto una gomitata sulle gengive.
Jules lo fissa con la malcelata stizza di chi l’ha capito benissimo, ma purtroppo non vede come togliersi dall’impiccio, a meno di non darsela a gambe. Sbuffa, dondolandosi sui talloni con le mani in tasca, il collo incassato nel bavero, domandandosi perché. Perché scegliere di assecondare lo spirito avventuroso di un lagotto, anziché seguire il proprio desiderio di tornare alla Tenuta: a quest’ora sarebbe allungato su di un comodo divano, invece di stare con le pedule affondate in grumi di terra, aspettando che disseppelliscano un tizio morto stecchito.
«Ecco, lo hanno tirato fuori» lo richiama il Sovrintendente.
Jules espira e muove qualche passo in direzione della buca, allungando il collo.
«Gesù!» esclama, avvicinandosi per osservare meglio.
«Eh, si, in effetti non è un bello spettacolo» concede il Sovrintendente.
«Non era un’esclamazione» scuote la testa Rosset, «mi riferivo al morto: René Francescatti, detto “Gesù”, per via del suo aspetto, come dire…» e sventola la mano ossuta a illustrare barba e capelli alla nazarena del corpo che è stato appena deposto nel suo sudario di plastica nera, in attesa del medico legale. «Un marsigliese. Aveva un giro di ragazze, ad Aosta, per lo più dell’Est, le picchiava, ne abusava, una l’aveva quasi ammazzata. Lo avevamo arrestato, poi lei per paura aveva ritrattato tutto e lui se n’era tornato fuori, fresco come un giglio, per ricominciare come prima. No, non era una bella persona.» Si accuccia a osservare il bozzo livido che il “Gesù” Franceschetti ha sulla fronte, anche se a suo avviso è la larga ferita sulla tempia opposta la causa della morte, come se fosse caduto su di una pietra o qualcosa di acuminato, e la mancanza di sangue intorno gli fa supporre che in questo campo sia stato portato solo dopo.
«E da Aosta com’è che è venuto a farsi ammazzare qui?» domanda stizzito il Sovrintendente Giusti, quasi che la morte “in trasferta” fosse un affronto personale.
Jules allarga le braccia e alza le spalle, con la faccia di chi gli ha già dato un nome e un passato, porcavacca, mica ha la sfera di cristallo! E poi l’ultima volta che ci ha avuto a che fare risale a cinque anni fa, quando era ancora ispettore in Valle e…
Ed è in quel preciso istante che la consueta scossetta le parte alla base della colonna vertebrale per schizzare fino alla nuca.
Si allontana dalla fossa, afferra il cellulare, fruga tra le ultime ricerche, allarga a pieno schermo l’immagine del dipinto. E tutto di colpo ha un senso.

Adesso è di nuovo a Bolgheri. Lancia una rapida occhiata alla torre di mattoni rossi del castello dei conti Della Gherardesca, attraversa l’arco che conduce al borgo, costeggia i locali che si stanno organizzando per gli aperitivi, evita per un pelo di far crollare le cassette di legno colme di lavanda e altra mercanzia esposta davanti a un negozietto, e a larghe falcate risale per il vicolo, fino a raggiungere il cimitero di Nonna Lucia. Ascanio è ancora lì, impegnato a declamare il suo sapere a una coppia di giapponesi che non capiscono un accidenti, ma lo ascoltano comunque, composti e attenti. Jules sventola la mano in un rapido saluto, fila dritto all’interno della cappella, afferra la tazza di porcellana con ancora due dita di tè a galleggiare sul fondo e riconosce il logo stampigliato accanto al manico: è il nome di un locale che si trova poco più sotto, quello con le seggiole di legno rosse e le lucine appese ai tralicci. Per questo ora Jules è qui e la sta aspettando seduto sul muretto, accanto alla campana del vetro.
La vede uscire dalla porta sul retro, la Madonna “Lippina”, con una grossa pentola colma di bottiglie vuote, i capelli biondi e sottili che ora porta annodati con un elastico blu sulla nuca, la fronte bombata e gli acquosi occhi chiari che si sollevano, lo inquadrano, con un piccolo sussulto lo riconoscono, ma continua lo stesso a camminare verso di lui, abbracciata alla pesante pentola con la rassegnata accettazione di un “inevitabile” che la perseguita da quando ha memoria.
«Ciao Irina» la saluta Jules, alzandosi.
«Buongiorno ispettore» e senza guardarlo inizia a gettare dentro al buco le bottiglie.
«È finita» dice lui.
«Lo so. Ora butto queste e vengo.»
«Non hai capito» Jules si avvicina e comincia ad aiutarla, «è finita nel senso che sei libera.»
Lei si volta e lo fissa.
«Nessuno saprà mai chi eri e cosa ti legava a lui, hai la mia parola. Non pensavo che avresti seguito il mio consiglio di cinque anni fa.»
«Quello di scappare via, di rifarmi una vita? Neppure io lo credevo. Mi mancava il coraggio, sembrava più facile lasciarmi morire che riprendere a vivere. Eppure ci pensavo. Sempre.»
«Poi?»
«Poi l’inverno scorso ha picchiato a sangue Ludmila. L’ho portata io in ospedale e quando sono uscita da lì… non so, ho chiesto un passaggio a un camion, poi a un altro e…» fa un piccolo sorriso triste. «Ero convinta di esserci riuscita. Solo che tre giorni fa l’ho trovato lì» indica con il mento il muretto, «Irrrrrina, rideva con quella sua r che gli girava per la bocca quasi volesse masticarmi» ha un brivido. «Lui non se l’aspettava. Continuava a ridere mentre si avvicinava, con le braccia aperte e quei suoi occhi da diavolo. A me è bastato solo sollevare la pentola. E lasciarla andare.»
Jules oscilla appena la testa, a dire che non serve aggiungere altro, che non importa, che darebbe una medaglia a chi l’ha aiutata a portare via quel corpo largo come una putrella, che lei si è solo difesa e qualunque giuria di buon senso l’assolverebbe, se tutte le giurie avessero buon senso.
«Come ti chiami ora?»
«Lucia, ma…»
«Addio Lucia, ti auguro buona vita. Te la meriti». Getta l’ultima bottiglia, le restituisce la grossa pentola e salutandola con uno dei suoi sorrisi sghembi, incassa il collo nel bavero e se ne va.

«Tutto a posto Jules?» domanda Valentina versando il vino nei calici.
Jules osserva i volti aperti e autentici dei suoi ospiti attraverso i riflessi rubino e si guarda intorno. Pensa ai progetti, quelli da costruire insieme, passo dopo passo, da coltivare e vedere crescere, pensa a Irina e a chi come lei si convince di non avere neppure il diritto di sognarlo. Pensa alle scelte e alla vita, quella che vale la pena vivere. E annuisce.
Alzano i calici “alti e schietti” come i famosi cipressi, sì. Ma con qualcosa in più.