Al Battistero d’Oro B&B UNA COPERTA PER DUE
di Francesca Gerla ♦
«Luca! Luca!»
«Eh?»
Allungo una mano fuori dalle coperte per afferrare l’orologio che ho lasciato sul comodino. È l’una di notte. Perché Antonio grida così?
«Luca, guarda!»
Mi stropiccio gli occhi. Alzo le palpebre, ma quelle si riabbassano subito. La battaglia dura poco; seguo l’istinto e mi giro dall’altra parte.
«Ma no, non puoi addormentarti di nuovo!»
«Fammi dormire, e vattene a letto pure tu!»
Non mi risponde.
Per un po’ lo sento saltellare per la stanza in preda all’entusiasmo. Socchiudo gli occhi e intravedo una strana luce che rimbalza tra le mura. Deve essere la luna.
«Sveglierai tutto l’albergo».
Mi alzo a fatica. Ho dodici anni e il peso di un lungo viaggio sulle spalle.
«Luca, dai, devi venire!»
Mi vede seduto sul letto e viene a tirarmi la manica del pigiama.
«Ma dove?» gli chiedo, ancora bloccato nei miei sogni.
«Come dove? Guarda!», mi molla e corre alla finestra.
Quando, poche ore fa, siamo entrati nella suite del Battistero d’Oro, come ogni volta lui ha scelto il letto più vicino alla finestra, io quello confinante con l’armadio. Il bed and breakfast è diventato casa nostra. Ci veniamo due, tre volte l’anno da quando siamo nati.
Prima ci portavano mamma e papà; adesso solo lui. Per Natale, e per il compleanno di ognuna delle zie. Margherita e Felicia, si chiamano le nostre zie; due anziane zitelle circondate da mille badanti. Sono le sorelle della madre di papà, io e Antonio ci siamo affezionati. Avranno all’incirca cent’anni. In genere siamo felici di venire a Parma; di andarle a trovare, di tutti i regali che ci fanno, anche se le festeggiate sono loro, di mangiare i dolcetti con quel tè così pieno di zucchero da non sapere più di tè; di fare visita ai mille cugini sparsi per la città, alcuni più piccoli di noi, altri vecchissimi. Ma soprattutto siamo felici di fare una colazione spaziale, con yogurt fatto in casa e, nei giorni fortunati, certe torte che me le sogno la notte; di dormire nella nostra stanzetta regale, di sentirci a casa in questo bel palazzo, così diverso dal nostro; di fare i signori insieme a papà, che viaggia tanto per lavoro ma solo raramente ci porta in giro; solo dalle zie, ci porta, e in villeggiatura ad agosto.
Siamo felici, di solito, di arrivare nel nostro bed and breakfast preferito, che piaceva tanto anche a mamma. A volte, quando dormo in questa stanza, mi sveglio pensando che verrà lei a dirmi che la signora ha fatto la crostata, la mia preferita.
«Guarda, Luca! Hai visto?»
Mi alzo in piedi. Cosa c’è di tanto entusiasmante? Mi avvicino ad Antonio, gli poggio una mano sulla spalla. È ancora così piccolo, sembra sperduto. A volte lo guardo e penso che da quando è morta la mamma si è fermato in tutto, pure nella crescita. Pare in attesa di qualcosa, lo sguardo puntato verso altro. Pensieri fantasiosi, contorti; a volte inafferrabili. Forse non vuole crescere. E forse voglio anche io che sia così. Eternamente piccolo, dipendente da me.
Fisso lo sguardo fuori. Lo punto contro tutto quel bianco appassito dal buio.
«Non vedo niente» dico, un po’ deluso.
So che Antonio ama inventare cose; ma non è mai successo che mi abbia svegliato nel bel mezzo della notte per farmi uno scherzo del genere. Davvero ci avevo sperato, che avesse qualcosa da farmi vedere. Qualcosa di bello, che mi allontanasse dall’angoscia che mi prende da quando ho saputo che mio padre si sta per risposare. E invece no, sono stato svegliato senza motivo. Che se ne andasse un po’ a…
«Ma come, prima c’era!»
«Antonio, sono stanco. Non hai sonno? Andiamo a dormire, su».
Mi giro verso i letti. La stanza è calda ma un brivido di freddo mi fa desiderare le coperte bianche. La mia figura sembra gigantesca, al confronto con quella di Antonio. Tutti dicono che sembro più grande. Non so quanto sia vero; per parte mia mi sento già uomo.
«Non ho sonno! Come faccio a dormire?»
«Per il fatto di papà? Lascia perdere, ti abituerai anche a questo, le cose poi si aggiustano».
«Dici sempre così, ma a me non mi ascolti».
«Dormiamo, su!».
Mi siedo sul letto. La luce della luna mi pare più tenue, più delicata.
«Luca, non hai capito. Io non sto pensando a quel fatto… sto parlando di un’altra cosa».
Adesso mi fissa in piedi, con occhi stretti pieni di senso. Cos’ha da guardarmi?
«Io l’ho vista, ti dico! Se torni alla finestra con me la vedrai pure tu!»
«Ma cosa, Antonio, cosa? Avrai sognato».
«Nessun sogno!» strilla.
«Ssssh! Smettila di gridare!»
Lo tiro a me per la mano. È fredda e asciutta.
«Stammi a sentire, piccolo: adesso noi dormiamo. Poi domani…»
Penso di consolarlo, e invece: «Domani? Domani sarà andata via!»
Decido di ignorarlo, mi infilo sotto le coperte. A questo punto compie un’azione che potrebbe significare guerra: accende la luce.
«Ehi!»
«Non puoi dormire!»
Decido di non combattere, non ne ho la forza. Mi metto le coperte fin sopra la testa; non resisto a lungo però, perché mi sento soffocare. Tiro fuori un pezzetto di faccia, ma di nascosto. Antonio mi guarda per un po’, poi si scoraggia.
«Va bene» dice, spegnendo la luce, «fai come credi. Quando poi uscirà la notizia sui giornali, non dirmi che non ti avevo avvisato».
Sento i suoi passi che si dirigono di nuovo verso le alte finestre di fronte i nostri letti. La luna da fuori illumina abbastanza la camera da consentirgli di muoversi anche senza luce accesa.
Mi dico: ora si stanca. Invece passano i minuti, e lui resta alla finestra. E io non dormo.
Non vorrei avesse la febbre: a volte fa cose strane, quando prende l’influenza. Quando c’era ancora mamma stava molto attenta a non sgridarlo, in situazioni del genere. Cercava di assecondarlo e di ricondurlo con dolcezza alla ragione.
Certo, devo fare anche io così. Altrimenti finisce che divento come papà, che ci sgrida e basta, senza starci a sentire. Non ci dà mai ragione! Manco quando ne abbiamo veramente. Lo rimproverava pure mamma, “sei troppo severo con questi bambini!”, ma lui diceva che era per il nostro bene; poi ci veniva a spiegare le cose, ad abbracciare, a baciare, e lo vorrebbe fare ancora oggi ma non ha capito che io, adesso, sono grande. E non ho bisogno di queste smancerie, non ho bisogno di lui. Io, da solo, mi basto e mi avanzo.
Mi sono messo a sedere, guardo mio fratello di fronte la finestra. Prenderà freddo. E se si ammala, il piccoletto, chi lo cura? Non di certo quella Ginevra: secondo me un bambino non l’ha mai visto manco in cartolina; e, quanto a papà, senza la tata è perduto. Se si ammala, gli devo stare vicino io per forza e mi inguaio la vacanza.
Mi alzo, afferro la sua coperta. Vado alla finestra, gliela metto intorno alle piccole spalle. Tanto, il sonno è andato.
«Non hai freddo?»
«Sì» fa lui, «ma vieni pure tu qua».
Alza la coperta, mi fa spazio perché ci avvolga entrambi.
«Ecco, stai qui con me» dice, «come faceva mamma quando la sera della vigilia aspettavo Babbo Natale davanti a questa finestra, di ritorno dalle zie».
«È questo che stai facendo?» sorrido. «Stai aspettando Babbo Natale?»
Guardo fuori. La strada sembra un morbido sogno incartato sotto la luna.
«E dai, ad aprile?» mi guarda e sorride. Il suo sorriso è più bianco della luna lì fuori.
«E allora?»
«Il dentino che ho perso. Quello che abbiamo messo sotto al cuscino, per la fatina».
«Che c’entra il dentino?»
«C’entra! Ho visto la fatina qui fuori».
«Hai visto la fatina dei denti di latte giù in strada?»
Gli tasto la fronte: fresca.
Si scosta mentre il sorriso gli si allarga ancora di più.
«No. Non era per strada. Lei… lei volava, con le sue ali. In aria, e faceva una luce bellissima. Volaaaava!» con il dito disegna il percorso immaginario della fatina, in alto verso il cielo.
«Sei il solito zuccone» sorrido.
«Adesso ritorna. L’aspetti insieme a me? Ha fatto con la mano il gesto di chi torna. I soldi sotto al cuscino mica me li ha lasciati: deve tornare per forza».
Ha gli stessi occhi grandi di nostra madre, quelli cui non potevi dire di no.
«Prendo due sedie».
Trascino le sedie davanti alla finestra, cercando di non fare troppo rumore.
«Sai cosa succede domani?» gli chiedo.
«Sì. Arriva Ginevra. Ma vedrai che la fatina…»
«La fatina? Che c’entra?»
Si sistema sulla sedia. Si fa serio.
«Ho detto alla fatina di non lasciarmi i soldi, non mi importa. Voglio solo una cosa: che Ginevra diventi una buona mamma. Io una mamma la voglio!»
«Non è nostra madre!» grido, incurante che papà, nell’altra stanza, mi senta. Come può Antonio tradirci così?
Lui sorride: «Lo so. Ma può diventare buona come una mamma».
Mi sale un nodo alla gola, penso di piangere come non ho fatto dal giorno del funerale. Voglio dire, sono grande adesso. Eppure mi viene da piangere. E da urlare, sgridare. Come può Antonio pensare che sia possibile? Essere felici di nuovo!
«Non ti arrabbiare» mi dice. «E non piangere».
Abbasso lo sguardo. La luna illumina una lacrima che, personalmente, non ho certo voluto. Lui allunga il suo piccolo indice e tira via la lacrima.
Gli prendo la mano bagnata. Per la prima volta ho la sensazione che sappia cosa fare più di me. Sono solo tanto stanco; vorrei che qualcuno ci sentisse, e ci riportasse indietro nel tempo.
«Hai ragione Antonio» tiro su col naso. «Aspettiamo la fatina».
Adesso ha la mano calda e piccola, piena di pensieri. L’allunga sulla mia nuca e resta lì, all’attaccatura dei capelli. Ha lo stesso odore di mamma; la sua stessa dolcezza.
Ci addormentiamo sulle sedie, abbracciati.
L’ultima cosa che sento sono i campanelli della fatina che sta planando sul davanzale del Battistero d’Oro.