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Auberge de La Maison
RITORNO A CORMAIORE

di Paola D’Agaro  

Partimmo da Messina il 19 luglio del 1943, nove giorni dopo lo sbarco. I miei fratelli più piccoli con l’impazienza di chi vorrebbe salire a cavalcioni di un’ogiva e mangiarsi la penisola nel tempo di uno sparo, io con un turbamento in più, un velo d’ombra sugli occhi che mi trasmetteva una nuova, stupita inquietudine. Avevo da poco superato la pubertà e guardavo, senza riconoscerlo, il mio corpo ritratto nello specchio sul soffitto dello scompartimento. Fichi d’india e oleandri attraversavano veloci il finestrino. E poi ficus, palme, ulivi, pini marittimi. E ancora le acacie, i lecci e gli eucalipti, lontano, verso l’Agro Pontino. Infine, isolate e superbe, le grandi querce con i loro rami contorti.
La guerra era entrata con discrezione nelle nostre vite sfiorandole appena. Il subbuglio, l’ansiosa frenesia che percorreva le strade di Ganzirri ad ogni richiamo alle armi, ad ogni arrivo di soldati in licenza o di qualche dispaccio dal comando di reggimento, ci arrivavano ovattati traducendosi appena nel corrugarsi di sopracciglia di mio padre o nei sospiri trattenuti di mia madre china sul ricamo al tombolo o impegnata nella canasta con le amiche. Gli aerei alleati sorvolavano il paese e andavano a scaricare il loro carico di morte altrove: a Messina, dov’era andata distrutta la cattedrale, o a Palermo dove mio padre dirigeva l’Ufficio del Genio Civile, sicché i nostri rituali familiari erano tenacemente rimasti gli stessi, magari con qualche fastidio in più causato dai capricci della tessera annonaria: la scuola, le lezioni di piano e i bagni al mare, all’imbrunire quando il sole andava scomparendo dietro le Caronie.
Fu così che anche quell’estate, non diversamente dalle precedenti, partimmo alla volta di Cormaiore – nome che il duce aveva imposto a quell’ultimo avamposto di italianità prima del confine – per quelle che ci obbligavamo a chiamare vacanze. Non so se nella finta disinvoltura con cui nostro padre ci salutò alla stazione ci fosse già la consapevolezza che di lì a poco ci sarebbe stata la prima grande metamorfosi nelle nostre vite e che da turisti ci avrebbe trasformato in profughi. Di certo io capii ben poco di quello che ci stava accadendo. La guerra era una cosa lontana.
Il resto del viaggio fu collina gentile, con le sue viti e i suoi ulivi, e montagna aspra e poi ancora la vasta pianura del Po e infine la distesa di abeti e di pascoli che preannunciava l’arrivo. L’ultimo tratto, con il ghiacciaio sullo sfondo, lo percorremmo in corriera. I miei fratelli scesero a Cormaiore zampettanti e felici con le loro valigette al seguito, impazienti di correre a riprendersi quello che avevano lasciato l’estate prima. Io seguii impacciata mia madre e i facchini carichi di borsoni e cappelliere.

“Vacanze in chiave mindful” recitava il depliant sul tavolo della reception.

Durante il loro soggiorno all’Auberge de la Maison di Courmayeur, gli ospiti possono usufruire di pacchetti speciali “mindfulness” da una settimana o consultare un mental coach. È un concetto che coniuga atmosfera, condivisione, comfort e benessere.

Il vecchio suonò il campanello sul bancone e si fece accompagnare in camera. Questa era completamente rivestita con tavole d’abete e odorava di falegnameria. Le pareti avvolgevano un letto dallo schienale imbottito su cui era posta una pesante trapunta rivestita di lucido taffetà sui toni dell’oro. Un canapè in cotone damascato e un comodino completavano l’arredamento. La camera apriva su un poggiolo al quale si accedeva da una porta finestra nascosta da pesanti drappeggi. Da lì erano ben visibili la piscina, il solarium, il patio del ristorante e due piccoli chalet perfettamente conservati. Di fronte, discreta e sfacciata assieme, la parete del Monte Bianco con la sua cornice di pascoli e foreste. L’uomo pensò al pacchetto speciale che prometteva di prevenire la sofferenza interiore e garantiva salute mentale e la bocca gli si increspò in un sorriso. Poi, dal balcone percorse con lo sguardo prima le case di pietra di Entrèves con i loro tetti in lose e infine la lunga lingua di ghiaccio che appariva luminescente nel crepuscolo serale. Immaginò il punto in cui il ghiacciaio arriva a lambire il lago del Miage dove in primavera lascia scivolare blocchi di ghiaccio che vanno a formare piccoli iceberg.
Era da lì che, tanti anni prima, costeggiando il lago e attraversando la val Veny era arrivato ad Entrèves al volante di una di quelle Citroën dai parafanghi sporgenti persino buffe nella loro baldanza da ragazzotto di campagna dalle mani larghe. L’aveva requisita al capostazione di Saint-Gervais-les-Bains affrontandolo con il piglio di chi non è abituato alle obiezioni e non se le aspetta. L’ordine era quello di portarsi di là delle Alpi dove Mussolini, appena liberato da Campo Imperatore, stava consumando gli ultimi scampoli del suo potere su un Nord Italia invelenito e stremato dalla guerra.
Un senso di disfatta lo invase quando fu nei pressi del confine che solo quattro anni prima l’esercito tedesco aveva varcato da conquistatore. Arrivò in paese verso l’imbrunire con in bocca l’amaro della sconfitta imminente. Mentre procedeva verso il comando tedesco si ritrovò chissà come a pensare alle distese di erica della sua Pomerania e rivide sua madre mentre si asciugava in fretta le mani con il grembiule e correva a ritirare i panni stesi nel cortile dietro casa prima che scoppiasse il temporale. Gli assegnarono una stanza in un rascard dove alloggiava una famiglia di Torino e seppe che il letto era quello in cui era morto un giovane ufficiale austriaco ucciso dai maquisards francesi. I giorni seguenti furono giorni di nostalgia e di rabbia impotente.

Non ci mettemmo molto a capire che qualcosa di drammatico stava accadendo e che la nostra vacanza si sarebbe presto trasformata in una sorta di profuganza. Gli alleati stavano risalendo la penisola, la linea del fronte creava un’impenetrabile barriera tra noi e l’isola e nessuno avrebbe saputo dire quanto tempo ancora la guerra sarebbe durata. Mia madre visse quei drammatici momenti con un’apprensione vicina al delirio. Scontava la lontananza dal marito nonché il crollo degli ideali che l’avevano vista salutare con fiducia l’avvento del duce. L’avevo vista sorridere una sola volta e fu quando seppe che i tedeschi lo avevano liberato dalla sua prigione sul Gran Sasso. Io passavo le mie giornate accanendomi negli esercizi al piano o percorrendo i sentieri che vanno zigzagando tutto attorno all’abitato. Cercavo così di non pensare alla guerra e a quell’altro macigno, la spina nella carne che non riuscivo ad estirpare. Il cielo era spesso attraversato da cacciabombardieri accolti dall’insufficiente contraerea tedesca appostata nelle gole meno esposte. Io rimandavo il momento della verità senza averlo deciso davvero, per inerzia o per viltà. O forse perché sapevo che le cose si sarebbero aggiustate col tempo e che chi mi amava avrebbe capito.

La ragazza arrivava al rascard tutti i pomeriggi da un albergo lì vicino e prendeva possesso dell’unico pianoforte presente in paese. La famiglia di Torino se l’era fatto arrivare dalla Svizzera per quel figlio pieno di talento che prometteva di diventare un eccellente compositore e che ora era disperso in qualche cimitero senza nome della Russia. L’uomo ne rinvenne i tratti in qualche pertugio della memoria protetto dalla forbice del tempo. Non poteva dirsi bella con l’attaccatura dei capelli troppo bassa, gli occhi scuri e cupi, il corpo rotondo e impacciato che è tipico delle ragazze del Sud. Eppure, vederla muovere le dita sui tasti chiudendo gli occhi e scuotendo il cespo di capelli neri lo faceva commuovere come un bambino. Quella commozione mutò ben presto in uno strano turbamento. Sentiva crescere in lui un’emozione disperata e assieme violenta che aveva la purezza di una religione e l’urgenza di un bisogno. Fu durante una delle conversazioni in francese che prima di cenare i due consumavano davanti a una fetta di mocetta e a un bicchiere di Fumin che quel turbamento si tradusse in un sentimento vicino all’amore.
Chissà se anche lei provava qualcosa per lui quando lo guardava seria da sotto le sopracciglia folte, con quegli occhi lucidi e neri come petrolio. E che diritto aveva lui, con addosso una divisa straniera che lo avrebbe portato lontano più di quanto non fosse già, di dirle che la desiderava? Si macerava il soldato Helmut Haller pensando a una soluzione e la notte fantasticava di fughe nella vicina Svizzera e di villaggi innevati in cui costruire il proprio romantico nido d’amore.
– Ti amo – le aveva detto un giorno così, d’istinto, e poi, rotti gli argini, le aveva raccontato i suoi propositi. Le aveva giurato che lui il coraggio ce l’aveva e doveva averlo anche lei. Aveva atteso poi, esitante, un suo cenno.
– Non posso.
– Perché?
– Perché no.
– Perché no?
– Perché aspetto un bambino.

La luna si era alzata luminosa sul ghiacciaio, la notte era fredda e silenziosa in quel triangolino di mondo tra le case e la montagna, Helmut Haller si scrollò di dosso i pensieri e scese nell’Aubergine, la sala ristorante dell’albergo. Lì si sedette e ordinò della mocetta con la polenta e un bicchiere di Fumin.

Ecco, l’avevo detto. Finalmente, quella cosa più grande di me aveva un nome. Pensavo che avrei pianto sopraffatta dalla vergogna e invece non fu così. Guardavo la faccia attonita di Helmut e quello che riuscivo a provare era solo una pena immensa per me e per lui. Il resto venne da solo. Le parole uscivano come se avessi alzato la paratia di una diga e raccontai. Raccontai l’incontro con Salvatore, l’apprensione per quel giovane sventato con cui condividevo le corse al mare dopo la scuola e infine quel pomeriggio non troppo diverso dagli altri in cui l’amore che mi germinava dentro era esploso nell’esultanza dei sensi e io avevo creduto di vivere quello di cui cantano i poeti nei loro versi e mi ero sentita simile agli dei. Dissi come, una volta ad Entrèves, passassi in posta tutte le mattine in attesa di una risposta che non arrivava. Arrivò invece il telegramma dei suoi: lapidario, crudele. Mi diceva che Salvatore era partito volontario e che non lo cercassi più per nessun motivo.
Stavo ritta sulla sedia e non piangevo. Dovevano ammazzarmi piuttosto. Sì, lo facessero pure, ero pronta, ma non avrei mai abbassato gli occhi davanti a quel giovane tedesco neppure per un momento.

Avrebbe voluto dirle qualcosa, quel giorno di ottobre davanti ai resti del loro pasto, qualsiasi cosa, ma non trovava nulla. Avrebbe voluto farle capire che a lui non importava, che il suo affetto per lei andava oltre le convenzioni sociali e le amarezze che la vita ti riserva. Avrebbe voluto ma la verità, accucciata lì, in qualche angolo della mente, glielo impediva. Mano a mano che lei andava avanti con il racconto sentiva salirgli da chissà quale meandro oscuro l’orrore e la condanna senza appello per quel che lei aveva fatto, quasi l’avesse fatto a lui, ed era convinto che qualsiasi cosa le avesse detto avrebbe avuto lo stigma indelebile del biasimo.
La mattina dopo, seduto sul cassone del camion che l’avrebbe portato a presidiare la casermetta nel Col de la Seigne, rivedeva se stesso come in un sogno e, muovendo appena le labbra e stringendo le dita attorno alla canna del fucile, pronunciava parole di fiele che avrebbe voluto scacciare dalla sua bocca. Ma subito dopo pensò che scappare non era servito a niente e che per tutta la vita non avrebbe fatto altro che scappare perché quegli occhi e quelle parole gli sarebbero rimasti dentro intatti nella loro raggelante crudezza, a dirgli che c’è qualcosa che fa più paura della guerra e della morte e che quel qualcosa è dentro di noi.

– Sig. Haller desidera altro?
Helmut Haller alzò lo sguardo verso la cameriera che gli sorrideva porgendogli il menu dei dolci.
– Lei è di qua? Avrei bisogno di parlare con qualcuno che era qui quando al posto di questo albergo c’era ancora un rascard.
– Se aspetta che finisca il turno l’accompagno da mia nonna, sta qui vicino.

La donna posò su di lui uno sguardo velato dalla vecchiezza e intrecciò le dita nodose sulla tavola.
– Sto cercando notizie di una famiglia che viveva qui prima della guerra, venivano da Messina. I genitori, due ragazzetti e una ragazza più grande.
– Certo che li ricordo. Venivano qui tutti gli anni. Una famiglia per bene, ma disgraziata. Quella ragazza così brava… chi se l’aspettava una cosa così. Lei lo sa, vero, che ci fu uno scandalo perché risultò che aspettava un bambino senza essere sposata? Cosa vuole sapere?
– Cosa è stato di lei?
– Si sa ben poco. Quando lo stato in cui era è diventato chiaro a tutti c’era un gran mormorare in paese. Si pensò al ragazzo tedesco che occupava una stanza dai torinesi. Se n’era andato di corsa un mattino senza salutare nessuno. Ma lei no e no, a dire che non c’entrava niente. Mai una parola di più, mai una lacrima, ma quando si trattava di difenderlo era inflessibile. In compenso la madre era disperata. E quanto si dannava, povera donna, per non aver vigilato abbastanza sulla figlia. Spesso si sentiva che la insultava e minacciava di farla rinchiudere. Finché una mattina quella ha preso la corriera ed è partita dicendo che andava incontro agli americani. Penso che invece volesse tornare dal padre. Pazza.
– E poi? Che si è saputo ancora?
– Le voci dicevano tante cose. Notizie certe poche, anche perché la famiglia smise di salire per le vacanze. Si diceva che avesse sposato un americano e fosse finita ad allevare cavalli in un ranch del Montana, qualcuno diceva che si era chiusa in un convento. Poi un giorno ricomparve da queste parti uno dei fratelli con la famiglia. Si era fatto un uomo tanto grasso quanto taciturno. Ma la moglie era una che parlava. Ci disse che sua cognata, non si sa come, era riuscita ad arrivare a Messina, ma il padre non aveva voluto vederla. Dormiva alla stazione finché non le si sono rotte le acque. Lei non reagiva più, era come se non le interessasse niente. Quando hanno visto che perdeva sangue l’hanno caricata su un carro e l’hanno portata in ospedale, ma non c’è stato nulla da fare. Il bambino è nato morto e dopo qualche giorno se n’è andata anche lei. Ha lasciato una specie di diario in cui racconta tutta la storia e sembra che parli pure di Entrè̀ves. L’ha conosciuta?
Helmut Haller pareva avvolto nei suoi pensieri come se non vedesse e non sentisse.
– Ha conosciuto mica la famiglia? Brave persone, neh?
– No. Me ne parlava un amico che è stato in vacanza qui prima della guerra. Diceva che la ragazza aveva un grande talento per la musica, me ne parlava molto bene. Peccato che sia andata così.
– Si fanno tante cose sbagliate nella vita. Per alcune c’è un rimedio, per altre no. Però bisognerebbe saperlo che c’è un rimedio. Bisognerebbe. Lei non crede?
Helmut Haller annuì, si alzò e aprì la porta per uscire. In quel momento la nipote entrò nella stanza con il figlio in braccio.
– Signor Haller, perché non si ferma a mangiare qualcosa con noi? Niente di speciale, roba alla buona. Se si accontenta. Giusto un minestrone con un po’ di mocetta e un bicchiere di Fumin.