Locanda Senio L’HIBISCUS
di Ornella Fiorentini ♦
Fiore scardina dal muro l’ultima porta della vecchia casa. È la settima, quella della camera dove dormiva la sorella. Lo fa con un gesto secco. Il legno geme con un suono stridente di violino scordato. Fiore, vestito con una tuta sporca di vernice, scende le scale lentamente tenendo la porta nera tra le mani, torvo in volto. Varca la soglia del giardino interno della casa, che è stata dei genitori. È solo sua ora. Sente che gli appartiene del tutto, priva com’è di porte. Afferra l’accetta e meticolosamente, come ha fatto con tutte le altre, taglia la settima a pezzi. Le porte devono bruciare nella stufa in autunno insieme con le foglie gialle del noce che dà sulla strada.
Una scheggia di legno si conficca in una foglia tenera dell’hibiscus. È fiorito di rosso, posto in un vaso di terracotta di fianco alla fontana verde di ghisa. Fiore si ferma di colpo, gli occhi sgranati dall’incredulità. Osserva con dolore la scheggia di legno che ha ferito l’hibiscus, curato con pazienza, da quando era minuscolo. Con lo sguardo controlla, una ad una, le foglie intatte delle altre piante del giardino. È l’anima della casa senza porte di Fiore.
Una lacrima di rabbia scende sulla barba brizzolata. Rincuora sottovoce l’hibiscus. Come si fa con un bambino che si è sbucciato un ginocchio. Da sempre conversa con le piante che contraccambiano la sua dedizione crescendo rigogliose. Fiore lascia cadere con un tonfo l’accetta sulle pietre levigate del cortile. Le ha raccolte sull’argine del Senio. Sanno di storia. A Palazzuolo, con quelle pietre, la gente ha costruito i muri delle case. Il borgo antico è pulito, quasi bianco. Si apre a ventaglio sull’Appennino, da sempre avaro di risorse. In paese ci si ingegna per non perdere la speranza nel domani. Con i sassi del Senio, Fiore ha tracciato un sentiero che si addentra nel giardino. Delicatamente prende tra le dita callose la foglia dell’hibiscus. L’accarezza prima di toglierle la scheggia di legno. Si siede sui ciottoli di fiume e respira profondamente.
Si è imposto di vivere ogni istante della sua vita come se fosse l’ultimo concessogli sulla Terra. Il pomeriggio è caldo. Assapora l’alito di vento, che sa di erba secca. Segue il volo della farfalla dalle ali gialle. Su ognuna c’è un occhio. Umano, nero, spalancato su Fiorenzo. Lo spia anche se Fiorenzo non esiste più da anni.
Ora c’è solo Fiore che, da uomo, si tramuterà in un giacinto, in una zinnia o forse in una gerbera. Arancione come il sole d’agosto, quando a Dio piacerà.
Dal cortile vicino, quasi nascosto dall’edera che ne copre il muro, si ode la voce intonata e nostalgica di Marianna. Canta la solita canzone d’amore, ormai senza tempo. Ha l’abitudine di cantarla mentre stende i panni sul filo alzandosi sulla punta dei sandali di cuoio. La treccia nera con qualche filo d’argento le danza sulla schiena quando si china a raccoglierli dal cesto di vimini. Tra le lenzuola appese Marianna sbircia oltre il muro di confine che la separa dalla casa senza porte. Spera d’ intravedere Fiore. Vorrebbe che le rivolgesse almeno uno sguardo furtivo mentre porta gli attrezzi sul banco da lavoro.
La vecchia canzone è un richiamo struggente che purtroppo rimane senza risposta. Marianna immagina che Fiore le doni una rosa rossa. La metterebbe nel vaso di vetro trasparente che tiene ostinatamente vuoto accanto al letto. Il suo profumo la inebrierebbe se la luce della luna piena entrasse dalla finestra aperta. Lei, di solito, la chiude quando si corica nel letto vuoto. Fiore guarda le braccia tornite di Marianna levarsi e abbassarsi nell’aria azzurra. Sembrano i gabbiani della Versilia che volano in alto per poi posarsi sulla sabbia. Gli manca talvolta il mare, nonostante ami il verde delle colline. Si ravvia i folti capelli nervosamente.
In fondo al cortile della casa senza porte c’è il ripostiglio. È l’unica stanza a cui Fiore non abbia divelto la porta. Per ricordare, ha deciso di lasciarla lì. Per ricordare sua madre che lo puniva rinchiudendolo nel ripostiglio per ore da bambino, dopo la nascita dell’ultimo figlio.
“È tardo, rachitico per colpa del fratello maggiore” si lamentava la donna con le vicine dato che Fiorenzo non le aveva mai ubbidito durante la gravidanza.
“È tremendo. Gli dovevo sempre correre dietro con il pancione su e giù per il cortile. Tutto il santo giorno per evitare che disegnasse sui muri e sulle pietre” diceva la madre con astio.
Parlava in tono aspro, nel dialetto forte, che sa d’aceto, di quel paese dell’Appennino. Fiorenzo se ne stava a capo chino in un angolo, semi nascosto dal tronco del noce ben sapendo che, al minimo sgarro, sarebbe stato rinchiuso ancora nel ripostiglio. Al di là del muro di confine la piccola Marianna ascoltava in silenzio. Impotente, tremava di rabbia. Un giorno, in quel muro di confine, si formò una crepa. Sembrava una lunga, amara smorfia di dolore.
L’unica finestra del ripostiglio, una stanza lunga e stretta, non veniva mai aperta. Era chiusa da un catenaccio arrugginito che le mani esili di Fiorenzo non riuscivano neppure a spostare. D’estate la luce del sole filtrava da una fessura circolare nel legno della porta nera. Se un ragno la velava tessendo una ragnatela dal colore di luna, Fiorenzo ne rimaneva incantato. Le formiche, che passavano in processione dalla fessura, non avevano scampo. Finivano in una bottiglia di vetro. Il bambino era abituato a sedersi su uno sgabello appoggiato all’unico muro libero del ripostiglio. A sinistra Fiorenzo riusciva a scorgere i vasi di pomodoro allineati sulla mensola di un verde impolverato. C’erano anche due o tre forme di formaggio, il prosciutto iniziato, coperto da un canovaccio sfilacciato e unto. A destra intravedeva la sagoma del tavolaccio da lavoro ingombro degli oggetti scartati dalle famiglie benestanti della città. Venivano raccolti dal padre e venduti per poche lire al mercatino di roba vecchia che si teneva nel cortile di casa la domenica mattina dopo la messa. Ci andavano i vicini e i parenti dei vicini alla ricerca della buona occasione che costasse solo pochi soldi.
Fiorenzo vedeva la gente scartare gli oggetti inservibili. Imparò ad amarli perché erano stati messi da parte come era successo a lui. Accatastati nel ripostiglio dal padre, il frigorifero ammaccato, il ventilatore senza pala, il trenino di latta arrugginita, la bambola dalle orbite vuote, lo sgabello a due gambe, il manubrio di bicicletta storto erano gli insostituibili compagni di avventura per il bambino. Muti, non lo sgridavano, ma si lasciavano toccare dalle sue dita che divenivano ogni giorno più abili nel percepire le diversità del materiale, i danni arrecati dal tempo e dall’incuria. Fiorenzo nascondeva negli angoli meno accessibili del ripostiglio gli oggetti adatti a essere reinventati. Avrebbero di nuovo avuto la dignità di esistere.
In inverno, quando dalla fessura della porta non entrava che un filo di luce grigia a dissipare l’oscurità, il bambino distingueva solo la sagoma vaga degli oggetti. Ne sceglieva uno battendo i denti dal freddo. Lo puliva con uno straccio, lo svitava e avvitava per verificarne il funzionamento se si trattava di un arnese da lavoro, di un tritacarne o di un frullatore. Se invece era una pentola di alluminio bucata, la metteva da parte per dipingerci sopra dei fiori e delle api.
La neve cadeva fitta in un tardo pomeriggio di dicembre. Arrivava già a metà della porta del ripostiglio. All’improvviso tremò. Venne spalancata da un carabiniere, chiamato dalla madre di Marianna. Temeva che Fiorenzo morisse di freddo, chiuso a chiave nella sua prigione.
“Nasce tutto da dentro. Lavorare è creare” sussurrava tra sé Fiorenzo nell’officina dell’istituto di religiosi che lo avevano accolto mentre riciclava materiale di scarto. A lui i frati chiedevano consigli per allestire il mercato della solidarietà, la domenica, nella piazza del paese. Gliene affidarono presto la responsabilità, consci della bravura di Fiorenzo. Gli chiesero di organizzare i mercati della solidarietà anche nelle altre sedi dell’ordine sparse per l’Italia.
Fiorenzo era tornato a casa dopo vent’anni. I genitori erano morti e la sorella aveva portato via con sé, ad Arezzo, il fratello minore. La casa appariva malandata, le pareti erano incrostate di umidità. Tra le tegole rotte del tetto filtrava l’acqua piovana. Il giardino era invaso dalle erbacce. Fiorenzo si era rimboccato le maniche e si era messo al lavoro per riparare la casa in cui era nato. L’avrebbe reinventata secondo i desideri di Fiore.
Un forcone, sorretto da uno stelo di ferro, diventa la lampada per illuminare l’angolo in penombra del soggiorno dove c’è il divano in cui Fiore sprofonda a leggere la sera. Appoggia i piedi su un tavolino ricavato da un tondo di mosaico installato in una ruota da carro. Fiore ha eliminato il frigorifero che è diventato una piccola libreria blu rallegrata da margherite dipinte in rilievo. Mette in fresco il cocomero e la bottiglia del vino nel pozzo del cortile. Fiore ha dipinto in cucina il muso dagli occhi viola di una enorme zebra. Troneggia sulla credenza, svuotata da piatti e bicchieri da quando è diventata una culla gialla e accogliente per le piante travasate. Il corpo in corsa a strisce bianche e nere della zebra continua nella parete del soggiorno vicina alla cucina. Quattro colonnine tortili di pietra bianca, su cui si arrampica il gelsomino africano, sorreggono il soffitto della stanza di Fiore. Al centro c’è il letto con il baldacchino dai veli bianchi che ricadono fino a terra. Sul baldacchino si è soffermato un angelo di terracotta dalle guance paffute a suonare la cetra.
Fiore ha disegnato sul pavimento di legno della sua stanza tanti piedi colorati. Sono i piedi di una famiglia. Una donna, un bambino e un uomo camminano tra vasi di jucca messicana e di spataphilius dalle foglie oblunghe verso il bagno, il soggiorno, il laboratorio da sarta vuoto. Altri piedi dipinti della stessa famiglia salgono su per la scala fino al ballatoio da dove si apre un’ampia terrazza. Rotonda, è delimitata da una balaustra in ferro battuto attraverso cui i fiori fucsia del geranio cadono a grappoli. Sfiorano il muro di confine della casa di Marianna. Non sa dell’ esistenza di un sentiero di piedi dipinti con i colori dell’arcobaleno che porta sino a lei. Separa il giardino di Fiore da quello di Marianna un piccolo cancello. Ci potrebbe passare solo un bambino o uno gnomo. La chiave arrugginita penzola da una catenella legata alla sbarra di ferro. Fiore non ha mai osato toccarla.
Immagina Marianna mentre si pettina, si veste, cucina, lava i piatti, stira, cuce per la gente di Palazzuolo, intona la canzone d’amore pensando a lui. La paragona a un’ape che produce il miele più dolce, l’attesa da assaporare sul pane. L’idea che Marianna, stanca di cantare la canzone d’amore, un giorno se ne vada, lo tormenta. Fiore si alza di scatto dai ciottoli del cortile, pervaso da un moto spontaneo di ribellione. Dal giardino strappa la rosa più rossa. Il suo profumo lo stordisce.
“Marianna!” grida rauco.
Si avvicina al muro di confine che li divide. Gli si butta contro, respingendolo con le mani come se volesse abbatterlo. Un ramarro fugge via impaurito tra le sue dita che sanguinano, punte dalle spine della rosa rossa.
Marianna depone la camicia umida nel cesto di vimini. Si avvicina pallida verso Fiore. È vestita di celeste. Le labbra tremano come se pregasse. Da un anno lui non la chiama per nome e non le parla. Alza la mano in segno di timido saluto. Si accosta al muro crepato.
“Marianna…” sussurra Fiore.
Guarda la bocca piena, color corallo della donna amata. La sfiora con i petali di rubino della rosa. Le loro labbra si uniscono. Fiore bacia Marianna a lungo al tramonto di un giorno d’estate. Sogna di impreziosirne i lobi delle orecchie con viti riciclate di ottone a cui appendere gocce d’ambra.