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Hotel Palazzo Vitturi
A MEMORIA DI ME

di Maria Rosa Giacon 

Intervistatore: Signora Franco, ci dica della Sua nascita. Ho letto che Lei proveniva dalla classe dei cittadini originari di Venezia, ma, con ogni buona volontà, non ho capito che cosa esattamente significhi tale denominazione…
Franco: Era una classe superiore al popolo e ritenuta di qualche nobiltà per la sua appartenenza all’illustre città sin da tempi remoti. Dunque io nacqui a Vinegia nel 1546 da Francesco, che effettivamente ne proveniva…
I.: Oh, finalmente mi è chiaro! Ma mi dica di Sua madre. Era cittadina originaria anche lei? Ed era anche lei una cortigiana?
F.: Mia madre Paola non era della medesima classe. Ed era, sì, stata cortegiana in gioventù. L’esser tale non costituiva ragione di particolare disdoro in Vinegia, ché esso tutto ricadeva sulle meretrici di strada, ben altro caso dal nostro. Quando poi io fui adolescente, ella mi avviò alla medesima professione in contrada di Santa Maria Formosa, dove io dunque vissi e, sotto la sua tutela, praticai l’esercizio alla tariffa di scudi 2.
I.: Ma, mi perdoni, 2 scudi non erano pochini per l’eccellenza delle Sue prestazioni? Non era forse Lei tra le più belle e desiderabili cortigiane di Venezia?
F.: Sì, volgarmente intendendo. Ma rammenti, caro Signore, ch’io non era né avida né venale. Il danaro? Importava per trattare degnamente la bellezza elargitami dalla Natura, non per altro. Del resto, i tanti gentilhuomini, prelati e magistrati, artisti e intellettuali, ch’ebbero la grazia di frequentarmi mi riempivano di doni assai generosi e mai ebbi bisogno d’aumentare i prezzi.
I.: Insomma, a differenza delle comuni prostitute, Lei era ricca…
F.: Senza dubbio alcuno! E, in breve torno di tempo, lo sarei divenuta al punto da entrare in possesso dell’illustre palazzo dei Vitturi, proprio là, nel campo di Santa Maria. Lo scelsi per la sua eleganza d’antico gioiello bizantino. Quando il sole vi rifulgeva, era tutto un brillio d’oreficeria muraria! M’incantava quella quadrifora sporgente dal piano nobile, adorna di patere e formelle. Sempre m’ero soffermata ad ammirarla, immaginando che un giorno da lì avrei potuto affacciarmi e, invidiata, contemplare la vita fervida della contrada e la vista sulla Chiesa di Santa Maria. E poi c’era un delizioso mezzanino, con quella sua trifora discreta, un gioiello anch’esso: luogo, pensavo fra me e me, da destinarsi ai più intimi amori, in cui riversare i tesori più profondi della passione.
I.: Vitturi… Che nome strano però!
F.: Strano, Voi dite? Forse perché non sapete di Latino, in cui esso significa destinati alla vittoria. E crediate che del palazzo non poco m’aveva incantato quel nome, persuasa che, facendo mie le sue mura, ne avrei condiviso la sorte e celebrato vittorie gloriose… Nelle battaglie d’amore, naturalmente. Ma perché quegli occhi stralunati? Tale aspetto non Vi dona affatto, credetemi!
I.: Ma io veramente… Mi sento un po’ smarrito… È che Lei è tutta una sorpresa!
F.: Suvvia, caro Signore! Con chi credevate d’aver a che fare? Ma Vi compatisco e perdono. Ben comprendo che nella Vostra società materiale, ove il mercimonio versa nelle più ignobili condizioni, il mio status sarebbe incomprensibile e alieno. Sappiate dunque che le cortegiane honorate di Vinegia vivevano in dignitose dimore, si lavavano quotidianamente con acque odorose dagli effetti salutari, risultando assai più nette delle gentildonne che, adottata la moda francese, dissimulavano il puzzo delle carni sotto profumi dolciastri. Poveri i loro mariti! Quanto a cultura, poi, noi godevamo di un’educazione raffinata e la mia, in particolare, era raffinatissima, giacché io ero proprio una fuori classe, come modernamente si suol dire. Sapevo infatti anche di greco, parlavo scioltamente la lingua francese; cantavo traendo dal liuto i suoni che più si addicevano alla mia voce studiatamente impostata. Ero esperta di belle arti e, più che ogni cosa, adoravo la poesia. Prova ne siano i versi che ho lasciato, tra i più belli del Cinquecento italiano. Solo Gaspara Stampa, la Padovana, poteva rivaleggiare con Veronica Franco.
I.: È vero che sono belli. Non fu forse Lei a scrivere: «Data è dal cielo la feminil bellezza | Perché ella sia felicitate in terra»? Tuttavia, non fu blasfema Sua madre chiamandola Veronica? Questo nome non significa vera immagine del volto di Cristo?
F.: Uuuuh! Come l’avete mal posta! Fra i tanti torti da ascriversi alla mia siora mare non vi fu certamente la blasfemia, poiché qui l’immagine di nostro Signore Gesù nulla ha a che fare. Veronica è vera immagine, sì, ma dell’Amore e della Bellezza.
I.: Ma non è un po’ riduttivo?
F.: Ah, perché Vi par poco? Non avete capito niente allora, neppure dei versi che avete appena citato… Nel mio tempo Amore e Bellezza erano tutto, e non solo per me, anche per coloro che ricevettero il dono dei miei favori, siatene certo!
I.: Mi perdoni, Signora. Di Lei ho potuto vedere solo un ritratto del Tintoretto e non riesco a farmi una vera idea della Sua bellezza.
F.: Allora, Ve lo farò chiaro con questi pochi tratti. La mia figura era alta per natura sua, senza necessità d’artifizio alcuno: mai mi servii, li detestavo anzi, di quegli zoccoli gemmati che indossavano le altre femmine, meretrici cortegiane o nobildonne virtuose, per innalzarsi di statura o non infangarsi nei giorni d’acqua alta. La mia andatura flessuosa mi consentiva quell’agile passo alla levriera grazie al quale ero in grado di evitare tutta la sporcizia della strada. Quando uscivo di casa, nelle mie vesti di taffetà marezzato, con il collo luccicante di tondini d’argento (giacchè a noi in pubblica via era proibito indossare collane di perle), con uno zendado sottile appuntato ai capelli, ero fatta oggetto d’invidia e ammirazione. Da sotto il velo leggero, traspariva l’oro delle mie trecce, trattenute ai lati del capo in una duplice massa disseminata di fiori e fili d’argento. Mai andavo con i capelli disciolti, ché solo le meretrici li portavano cadenti sulla faccia, in un gran ciuffo, alla maniera degli uomini.
I.: Trecce su entrambi i lati? Non capisco.
F.: Bella forza! Non avete nella Vostra moda alcun termine di paragone.
I.: E li teneva sempre così raccolti?
F.: Ma no, caro Signore! Fate domande d’una ingenuità straordinaria. Li scioglievo anch’io, s’intende, ma solo nei momenti dell’amore. Allora un manto biondo-ramato cingeva la mia nudità fin sotto la cintura. Qui sì che un poco d’artifizio c’era e, fin dai tempi antichi, ben lo conoscevano le donne veneziane: si chiamava la bionda
I.: La bionda? E che cos’era mai? Un tipo di tintura?
F.: Sì, un composto d’erbe e di tuorli da spalmare e disseccare sulla capigliatura al sole cocente delle altane. Un procedimento po’ scomodo, a dire il vero, ma ne valeva la pena: ne veniva fuori quel malioso colore che è in tutti i ritratti delle donne di Vinegia, anche in quello che per me eseguì il Tintoretto. E avreste dovuto vederne l’effetto sui miei amanti! Mirandomi ricoperta di quel mantello rosso-oro, venivano sopraffatti come da reverenziale timore, quasi si trovassero dinnanzi alla Vergine Maria… Allora mi toccava persuaderli che io ero invece la Donna, ossia una creatura speciale, da accarezzare, baciare con sete inesausta e possedere fra le parole più dolci del mondo: “Oh, Veronica, mio vero e solo e ultimo amore!”. Ché questo anelavo a sentirmi dire, tant’è che scrissi: «Così dolce e gustevole divento | Quando mi trovo con persona a letto | De cui amata et gradita mi sento, | Che quel piacer mio vince ogni diletto…». Pur sapendo sino in fondo come quelle parole altro non fossero che splendida menzogna. Ma non lo è forse l’amore tutto?
I.: Uhm… Non so se ho veramente afferrato quest’ultimo concetto. Ma, mi dica, come faceva per incoraggiare i suoi amanti, perché si riprendessero da quello choc? L’avrei provato anch’io, ne sono sicuro!
F.: Non mi davo troppo daffare, a dire il vero. Bastava che, sul mio petto dal candore brillante di neve, puntassi un dito a quei morbidi boccioli di rosa, di quel rosa che anche la ciliegia assume mentre si volge matura, et les jeux étaient faits: la loro lussuria si liberava irrefrenabile ed io trionfavo vittoriosa, giusto il nome del nobile palazzo in cui li accoglievo. Fu in tal modo, lo ricordo come fosse ieri, che conquistai Marco Venier. Era giunto alla mia casa su consiglio del fratello Domenico, mecenate delle arti belle e mio illustre benefattore. Vi era giunto con aria irridente, ma, appena m’ebbe vista risplendere sotto il manto della mia capigliatura, era rimasto folgorato. E, non bastando a rincuorarlo il mio gesto consueto, dovetti soccorrerlo con parole amorevoli, passargli e ripassargli le dita per la capigliatura bruna che aveva folta sopra la fronte. E non fu fatica di certo: era così bello il giovane Venier! Al punto che subito m’ispirò un amore grandissimo, fatto di passione ma anche di quella tenerezza che solo noi donne sappiamo profondere nei cuori maschili. Al secondo incontro, lo condussi nel mezzanino, in cui avevo allestito un letto dal baldacchino di candido pizzo, e cosparso di biancheria odorifera d’eccellente specie. E qui, tra quelle ariose pareti color acquamarina, adorne di motivi sottili a fiori e a frutti, amai perdutamente il suo corpo agile e ben temprato, quanto la sua anima nobile e fine. Da mane a sera all’alba del giorno dopo, ci consumammo senza toccar altro cibo che le nostre carni e bere altro liquore che dalle nostre bocche sempre umide al bacio. Ci conoscemmo entrambi per quello che eravamo per vero: spiriti eletti, che la sorte aveva fatto incontrare sia pure in circostanze avverse, io una cortegiana, lui un patrizio destinato alle più alte cariche della Serenissima Repubblica e a contrarre matrimonio con una gentildonna virtuosa. Neppure un attimo, dunque, concepii la speranza che in luogo di quella nobile fanciulla potesse esserci Veronica Franco. Sicché non gli portai alcun rancore, solo provai un dolore acerbo e grandissimo, il giorno che venne e mi annunciò: “Mio splendido, unico amore della mia vita, tu vera immagine dell’anima mia, oggi è il nostro ultimo incontro. Fra tre mesi mi accaso con…”. E qui mi fece un nome. Per fama sapevo colei colma d’ogni dote, tale da tenerlo durevolmente legato a sé: virtù, avvenenza, intelletto vivace e natali nobilissimi. Come recriminarlo? Era la vita a richiedere ch’io mi facessi da parte, nel mio rango nel mio mondo, che, a dispetto d’ogni intesa e condivisione d’anima e sensi, era remoto dal suo. Sicché più non lo rividi, se non in qualche pubblica riunione, saziandomi della sua vista nascostamente, dal di sotto la maschera che a noi cortegiane imponeva l’Avogarìa. E mi straziò un giorno leggere la firma M. Venier sotto un sonetto che così principiava: «Veronica, ver unica puttana»…
I.: Ma che faccia tosta quel Suo Marco! Che si vergogni!
F.: No, no, non m’interrompa, caro Signore! Non si trattava del mio Marco, ma del nipote di lui, Maffìo, giovane ignobile che, lanciandomi versi ingiuriosi, aveva inteso vendicarsi per averlo gettato io fuori di casa a seguito della violenza e volgarità avute nei miei riguardi. Fortunatamente, l’equivoco si chiarì e io potei preservare intatto il tesoro dei miei ricordi, l’unico che del mio bene mi restasse.
I.: Insomma, a quanto capisco questo Marco Venier fu l’amore della Sua vita… E Lei riuscì a riprendersi dal brutto colpo del suo abbandono?
F.: Mai in verità. Questo amore fu una piaga profonda, che il tempo non asciugò, lenì solamente.
I.: Tuttavia, la storia dice che Lei avesse comunque conosciuto grandi soddisfazioni. Che cosa ci può raccontare del Suo incontro con Enrico III? Deve esser stato entusiasmante essere amata da un re! È vero, però, che Le chiesero di fare la spia?
F.: In effetti, mentre un po’ ovunque venivo lodata per le mie virtù di poesia, vissi anche simile evento, che, a ventottanni, nel pieno fulgore della mia bellezza, m’avrebbe reso celebre in tutti i consessi. Fra i magnifici onori con cui la Repubblica nostra accolse Enrico di Valois…
I.: Ma allora era Enrico di Valois? Non Enrico III?
F.: Insomma, caro Signore, ripassate un poco la storia! Le Vostre interruzioni sono fastidiose per vero. Santa pazienza! Qui bisogna spiegar tutto, come si fa coi pargoli… Ebbene, lasciando la corona di Polonia per il trono di Francia, Enrico fece tappa a Venezia, accolto, dicevo, con gli onori più grandi. E fra tali onori vi fui anch’io, cooptata dagli Avogadori. E, per soddisfare al Vostro secondo quesito, così si pronunciarono gli alti magistrati: «Signora, Voi che siete la più honorata delle cortegiane, riceverete l’ampio favore della nostra Serenissima terra, se, munita qual siete d’acuto giudizio, riferirete i segreti che Enrico si lasci fra le braccia Vostre sfuggire». Promisi, naturalmente. E m’apprestai ad accogliere la regale persona nel piano nobile di Palazzo Vitturi, che avevo fatto di recente affrescare dalla bottega del Veronese. Infine, essendo il palazzo troppo in vista, fui persuasa dagli Avogadori medesimi a ricevere il futuro re nell’altra mia dimora, in San Giovanni Grisostomo. E tutto si svolse là, dunque. Enrico era troppo accorto per lasciarsi carpire alcunché e del resto si portò da gran signore, tanto che quel delatorio servizio l’avrei svolto proprio mal volentieri. Ma per fortuna non fu necessario. Il re fu galante, e però assai controllato; lo incantò specialmente il mio garbo di donna di mondo, «degna», esclamò, «di stare alla corte di Francia!». Ragionammo e conversammo per l’intera durata del nostro incontro. In breve, nessuna scintilla di passione si accese se non in extremis. Ed essa si spense velociter… Se ne partì comunque soddisfatto, ricoprendomi di doni larghissimi; ed io lo ricambiai con alcuni versi e un mio ritratto a smalto in formato minore.
I.: Ah! Si deve dunque ridimensionare la cosa…
F.: Sì, come tutte le cose terrene, che luccicano solo ad occhi inesperti. Ma ora sono un po’ stanca e vorrei dipartirmi, scusate.
I.: Un’ultima domanda, La supplico, Gentilissima! Si racconta che Lei volle lasciare una parte cospicua della Sua fortuna per una Casa di Soccorso a donne traviate. E molti colsero in questo nobile gesto un segno del Suo pentimento.
F.: Sì, ch’io mi fossi convertita, ravveduta e corretta… Oh cuore umano, quanto piccolo sei! Qual fantasia meschina la tua! No, tale proposito non fu mosso se non da compassione e desiderio di riparare all’ingiustizia delle sorti. Avevo in cuore quelle infelici, che, prostituite dalle madri in tenera età, avevan svolto l’esercizio loro nelle bettole e nelle calli più infami, percorrendo tutti gli stadi dell’abiezione. Ma non vi fu in me pentimento veruno. Di che avrei dovuto pentirmi? Per aver distribuito, e sempre, amore? Pur entro il mercimonio, altro non mi aveva diretta che il generoso istinto della mia natura femminile. Sul corpo dei miei amanti avevo celebrato tutte le alchimie, tutti i riti concessici dalla nostra povera carne, sempre donando felicità al sommo grado. Era questa stata una colpa? «No, Veronica, non colpa, la tua, ma un dono degli dei»: così mi confortò lo sguardo di Marco trasparendo dalla cortina di quella febbre che m’avrebbe spenta all’età di 45 anni.
Ora, addio, Signore gentile. Serbate, Vi prego, memoria di me. Veronica.