Toscana di cucina povera e vino ricco
Tra le infinite combinazioni di cibi e vini che si possono degustare in Toscana, abbiamo composto uno sfizioso menu di terra, per suggerirvi un ipotetico pranzo a base di specialità della cucina povera toscana in alcuni dei luoghi più caratteristici della regione, nell’area a ridosso della costa tirrenica.
Dall’antipasto al dolce abbiamo abbinato ai piatti scelti il nostro vino ideale del territorio, ma lo stesso si potrebbe pure fare al contrario, cioè partendo dalle etichette per sposare il loro cibo ideale: alla fine poco cambia, invertendo i fattori il prodotto non muta… sono matrimoni di gusto perfetti!
1. In questo nostro viaggio di nozze dei sensi, per l’antipasto partiamo dalla Maremma, precisamente da Scansano, dove ci facciamo servire un tagliere di salumi maremmani di cinta senese e di maiale brado maremmano.
La cinta senese è una razza suina italiana di origini antichissime, da secoli viene allevata in Maremma, in assoluta libertà; caratteristico è il colore scuro, quasi nero, della cute, delle setole del corpo e della testa, ad esclusione di una striscia bianca (appunto una ‘cinta’) che cinge torace, spalle, garrese e arti anteriori; la carne è particolarmente saporita e ben marezzata di grasso.
Decidiamo di abbinare al tagliere un calice di Limite, Vermentino IGT della Tenuta Pietramora di Colle Fagiano, un vino bianco fermo dal colore giallo dorato e di aspetto limpido, che richiama al naso fiori gialli, ginestra, susina, miele, crosta di pane, mela golden con note aggrumate; in bocca è intenso, fresco, sufficientemente sapido, persistente, rotondo ed equilibrato, con delicate note minerali esaltate dal finale leggermente amarognolo tipico del vitigno.
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2. Proseguiamo il nostro pranzo itinerante, spostandoci verso nord in Lunigiana, regione storica al confine con la Liguria, caleidoscopio di luci, colori e immagini, dagli scenari verdissimi che si concludono in alto nelle seghettate cime delle Alpi Apuane. In queste valli per secoli si consumò la saga di una delle più potenti famiglie del passato, i Malaspina, tra cui quell’Alessandro di Mulazzo che fu l’ultimo dei grandi navigatori di Spagna.
Sostiamo proprio a Mulazzo, dove la tradizione ci suggerisce di ordinare i testaroli al pesto, piatto povero della tradizione contadina, uno dei gioielli della cucina della Lunigiana. Farina di grano tenero, acqua e sale danno vita a un soffice disco di pasta, il testarolo appunto, che prende nome dagli antichi utensili in cui veniva cotto: i ‘testi’, un tempo realizzati in argilla e arroventati tra le braci. In questa ricetta i testaroli vengono conditi con vero pesto alla genovese.
Per l’abbinamento ci orientiamo senza indugio sullo Spinorosso del Podere Fedespina, azienda vinicola che produce vini naturali proprio a Mulazzo. Sin dal Medioevo il podere era inserito nel feudo denominato Spino Secco, che si trovava sotto l’influenza di un ramo dei marchesi Malaspina. La sapidità e la consistenza dei testaroli si sposano alla perfezione con la freschezza e la persistenza di questo eccellente nettare dal colore rosso rubino; le uve sono 60% Merlot e 40% Ciliegiolo, l’affinamento è di 24 mesi in botte di cemento e di almeno 12 mesi in bottiglia; al naso suggerisce aromi di fiori, cassis, marasca, erbe aromatiche e note minerali; al palato si mantiene lungo ed elegante con una bella persistenza finale.
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3. Il ‘secondo’ del nostro menu ce lo andiamo a gustare alle porte di Lucca, in uno dei tanti borghi ai piedi delle colline attorno alla città: le rovelline lucchesi, altro piatto povero dal grande fascino.
Le rovelline sono fettine di manzo impanate e fritte e poi ricotte nel sugo di pomodoro con capperi e odori. Oggi è uno dei piatti più gustosi della cucina lucchese, ma in origine era un piatto di ‘recupero’: di solito si cucinava a cena con le fettine avanzate a pranzo.
L’abbinamento d’obbligo è con il Crociale del Colle delle 100 Bottiglie della Maolina di San Macario, un’azienda votata al recupero delle terre abbandonate per restituirne la bellezza a tutti e valorizzare il territorio. Il Crociale è vino organico certificato bio, prodotto con uve Syrah dei vigneti di Maolina e Segale: vino denso, corposo, dal colore intenso e saturo, fine ed elegante. Fermentazione in acciaio, poi un anno di barrique e affinamento di almeno sei mesi in bottiglia. Profuma di tabacco e spezie con richiami di frutta scura; il sapore è complesso, morbido, con un tannino ben definito.
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4. Per il formaggio ci spostiamo in Val di Cecina, nella zona che, seguendo il corso del fiume, va dalla Costa degli Etruschi a Volterra, prossima Prima Capitale Toscana della Cultura 2022. Scegliamo il Velathri Biologico, un pecorino semi-stagionato prodotto con latte ovino crudo biologico intero dalla Fattoria Lischeto: la crosta è rugosa, con presenza di muffe, e la pasta è bianca e friabile di colore che va dal sabbia chiaro al color ocra; dolce e leggermente sapido, con delicate note animali ed erbacee. Velathri è proprio il nome etrusco della città di Volterra.
Il Ligustro del Podere La Regola di Riparbella è il vino del territorio che scegliamo per accompagnare questo formaggio: Rosso IGT Costa Toscana, si origina da vigneti situati nella valle del fiume Cecina, a soli 5 km dal mare; è a base Sangiovese con una percentuale variabile di Syrah; fermentazione in acciaio inox, affinamento di 5 mesi in tini di cemento naturale e 12 mesi in bottiglia.
Il Ligustro si presenta all’occhio con un colore rosso rubino; all’olfatto regala evidenti sensazioni di frutta rossa matura; in bocca è di medio corpo, con tannini fini e un finale minerale; oltre ad altri abbinamenti ideali, è appunto perfetto con formaggi mediamente stagionati.
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5. Per concludere in bellezza il pranzo bisogna prendere la nave, per recarci sull’Isola d’Elba e deliziarci con la schiaccia briaca (contrazione di ‘ubriaca’, dall’uso di vino nell’impasto), che è il dolce natalizio, poco lievitato con noci e uvetta, tipico dell’isola d’Elba e, in particolare, del circondario di Rio nell’Elba. I riesi la offrivano in dono a chi andava per mare: la sua pasta quasi secca, con poco lievito e senza uova, costituiva una fonte di energia immediata e gustosa, adatta a essere conservata a lungo nelle cambuse delle navi.
Le origini della schiaccia risalgono al periodo delle invasioni dei pirati all’Elba. La ricetta di questa semplice focaccia non prevedeva l’utilizzo dell’alcol, per seguire i precetti dell’Islam, e raccoglieva insieme vari tipi di frutta secca, ingredienti tipici della cucina mediorientale. Nell’Ottocento il miele fu sostituito dal più costoso zucchero e la schiaccia fu ‘imbriacata’ con il vino aleatico e l’alchermes, che conferisce al dolce la tipica colorazione rossastra in superficie.
E con vino aleatico è d’uopo accompagnarla, ma non uno qualsiasi: Silosò dell’Azienda Agricola Arrighi di Porto Azzurro è l’Aleatico che consigliamo. Uve aleatico 100%, dalle note minerali forti, dai sentori erbacei evidenti con punte di erba secca estiva, marmellata di fico, ciliegia e albicocca. In bocca si riscontra una leggera velatura tannica con amorevole morbidezza fruttata, che richiama marmellate di frutta rossa e arancione. L’abbinamento con la schiaccia briaca, saporita ma non eccessivamente ‘zuccherosa’, è davvero perfetto.