Villa CollepereLA NOVELLETTA DE L’OPRA BONA
di Massimo Roscia ♦
Pria che la rosseggiante aurora in man prendesse le cerulee briglie de’ suoi corsieri, file indorate di cocchi, calessi e portantine in lenta procession s’eran già mosse a traverso i zollosi campi, le fronzute selvette e l’ubertose vigne di superbe uve cariche e, come lagrima che gota pianamente solca, rigavan l’erbosi poggi che da Fabriano declinan lievi a Camerino. E quando ’l sol incomenzato avea a illustrar al ciel metà de la sua regal altezza, anco l’ultima carrozza, colla cassa tutta gajamente verniciata e da tre coppie d’ardenti andaluzzi destrieri tratta, a destin era ormai gionta.
Ma di ciò il leggitor non s’inganni ché la cagion di cotal amplissimo et isfarzoso raccoglimento è tosto detta: Messer Carlo, Visconte di Castrimonno e Signor di Collepere, avea la laudabile usanza di ragunare, presso la sua rustica magione, i più eccellenti poeti, litterati, pintori, musici e scovritori de la Marca intiera per premiar, con solennissima pompa, l’opra o l’invenzion che infra tutte fusse la più bona. Acciò sappiate adunque che quella fiata l’annunzio de la singolar tenzone sparso s’era, come pula al vento in su l’aia, ben oltra li confini del matelico contado, laonde non faccia maraviglia che i bramosi contendenti, anelanti di conquistar gloria e migliorar fortuna, da ogniddove addivenisser in gran copia: da Gàjole, da Selvalagli, da Stroppigliosi, da Castel Santa Maria, da Pioraco, da Santa Natoglia, da Fiuminata, da Braccano, da Rustano, da Cerreto d’Esi e financo da l’assai discosta Rocca Contrada.
Et in quel dì speciale che più non ebb’eguali, pur anco le villiche genti abbandonaron de’ campi e de l’armenti l’abitual governo e, colle vesti da festa abbigliate, subitamente accorsero per mirar d’appresso ’l grandioso corteo d’omini illustri et ingegnosi ch’adagio sfilava longo la battuta istrada d’antiche pioppe e da gelsi cinta. Tra grita, fischi e soni che si spandean lontan come ’l fremito de’ flutti marini da la procella flagellati, l’agricola progenie, festante e giuliva, plaudiva la colorita parata di gentilomini agghindati e rimpettiti e di gentildonne di ricchi e varii vestimenti adorne, di notaj, speziali, orefici, tessitori, mercatanti di carta e pannilani et altri valentissimi cittadini santadriani ch’eran sì tanti ch’io noverar non posso.
Fu Ser Carlo istesso ad accoglier la gran multitudine d’artisti, giurati et auditori a la loro venuta e lo fe’, accompagnato da la sua amabilissima signora, da i suoi figliuoli, da ’l fido famiglio Beniamino e da una folta ischiera di servidori in verde livrea di stemmati galloni listata, con lieto viso, somma riverenza et infinita cortesia. L’ospiti, da i modi sì gentili e da la beltade del luoco rapiti, in un subito trovaron giocondo trattenimento nel dilettevole giardino lo quale d’intorno e per lo mezzo avea robuste et annose querce, lecci, olmi et altri ramosi arbori da le tremule e pispiglianti frondi et eziandio longhe vitalbere, amene piante, cispugli e flori che a la vista et a l’odorato non poco di piacere e ricreazione porgean.
Chi adunque in quel radiante empireo soggiornò ritemprando le membra e lo spirto, chi per via di diporto festosamente motteggiando, chi rimirando l’abondanti selvaggiumi che nel pozzo eran stipati, chi cogliendo ciriege e mele rose e d’altre maniere di frutti secondo che la stagion portava, chi giacendo su l’erba d’un soffice pratello ov’eran gran frescura et orezzo, chi bevendo di verdicchio un buon bicchiero e chi piluccando succosi pomidori con silvatico finocchietto maritati, verzure de l’orto, candide ricotte, fettoline di presciutto, coppa, ciauscolo e lonzino et altri mille piccioli mangiari ch’a le papille dato avean ’l lor gustoso benvenuto. E tutto ciò accadea in un’aura di serena gioia e fraterna amistà, imperocché a Collepere la mugnifica e conviviale ospitalitade, più che un dovere, intesa era come un sacro valore, un punto d’onore e al tempo istesso un natural atto d’amore.
Ma pria di dar cominciamento a codesta novelletta, acconsentitemi di presentar, brievemente e quanto a lo miglior lecito sarammi, Messer Carlo e la di lui adorabile famiglia. Ser Carlo era un gentilomo savio, largo e cortese. Di scienze compiuto, a l’umane fatiche et ai perigli da sempre abituato, ei era venerato e da tutti, per prammatismo e compostezza, considerevolmente istimato. Ma, per quanto schivo, serioso et in contegno ei fusse, mai isfuggir ’l destro a lo sollazzo si lasciava. Di bello e ridente aspetto, com’un giunchetto magricciuolo ma dal busto aitante e di statura poco sovra l’omo giusto, avea occhi turchini e come ’l sol radiosi et un crine finissimo e canuto lo quale al chiaror de’ lumi rilucea et in dignitade multo l’accrescea.
A canto a lui vivea l’onesta Madonna Marilena, signora d’innata eleganzia, profonda vertù, eccellente cor et animo di rarissime doti adorno, lo cui verginal candore d’ogni suo almo gesto transpirava e fino quello de’ gigli in purezza sopravanzava. La ditta madonna, Gagliardi un tempo cognominata et intra ’l gusto et i raffinati savori d’una lombarda cascina allevata, amava le arti e le cose belle e rare. Costei avea un corpiccino dilicato e le gote deliziate d’un carminio che nel latte si spandea, l’occhi soavi et ampli e pieni d’austera gravità con natural dolcezza mescolata e le chiome dorate ch’ella era usa portar non già celate in rete niuna ma disciolte a incorniciar ’l grazioso viso o con un fiocco dreto a la nuca attorte.
A dar poi a la venusta et accostevole famiglia confacente compiutezza provvedean i di lor due giovin figliuoli. Amendue eran alti, belli, di membra prestanti e de la persona ben formati; amendue, costumatamente allevati, a le cortesi usanze di garbo educati, ne gli istudii degni di non picciola ammirazione e nel giuoco de la pallacorda assai periti. Il primiero, che Nicolò nomavasi e trent’anni ancor non trappassava, tenea de ’l color di novella castagna fluenti capei e una barbetta rada et arguta che l’ovale da basso ne appuntava. Di citara sonatore e di spitali et altre pubbliche opre valente architettore, tra la natia Matelica e la danese Odense sovente facea la spola. Lo secondo, nomato Filippo, d’etade di anni vintiquattro, sempre un ciuffo avea sovra la fronte scherzante et occhi vivi e negri come mature olive, un naso breve e diritto et un fulgido sorriso che de l’animo suo la grandissima bontade risvelava. Credendo firmamente ne la libertà, ne l’eguaglianza, ne la giustizia e nel progresso, de la politica le scienze con dedizion istudiava et un fervido amor per lo teatro, la lectura e, sopra tutto, per la sua sublime terra ei coltivava. Ma qui, signori miei, mi taccio per tornar, sanza ulterior indugio, a contar la nostra istoria che ad’udir, son certo, trarrete gran diletto.
A mezzo die, quando ’l sol di tutta forza ’l fermamento isfolgorava, la fulva e pimpante donna Franca, sopraffina siniscalca, sonò discreta un campanello, lassando sì intender che ’l desinare era ormai presto. Per la qual cosa d’indi, l’affamati ospiti con tutta prescia dal giardin si dipartiron e tantosto si ridusser nel salone de le feste, lo quale di splendidi arazzi, stucchi, greche e dammaschi con squisito gusto era addobbato. E, dappoi che ciaschedun se n’andò a sedere, venner in gran copia servite le vivande. Di pan bianchissimo, isvariati pasticci, tarte, acquecotte, minestre, vincisgrassi, carpioni e caci d’ogni sorta l’ismisurata mensa era imbandita e, traendo Messer Carlo de’ dadi, biribissi et altri giuochi di fortuna, in nolo dati ai barattieri, cospicue entrate, non difettavan certo porci cinghiali, polli ingrassati, capponi arrostiti, tacchinelle bollite, paperi a lo spedo, augelletti a la salvia e pistacoppi d’ova e carni ripieni.
Non desti stupor se, innanti a cotanto bendiddio, il più lesto a tuffar le mani et enpirsi ’l ventre fu propio Fra’ Calandrino, clerico ingordo e brodaiuolo ch’a la pietade di gran longa preferiva la pietanza e che niun altro talento maggior avea che ’l trangugiar sanza misura. Or così, mirando a ’l vorace fratacchione ch’a guisa d’un lupo la testicciuola d’un cavretto azzannando istava, anco l’altri commensali a desinar pricipiorno e, mi sia creduto, feceronlo per buona pezza e con grandissima letizia. Tra una risa et una facezia, un fagian intiero et un coniglio in porchetta, un vino bianco et uno vermiglio, ’l tempo in gusto et in allegrezza tanto scorse che niuno de’ sodali punto se n’accorse. Et, a la buon’ora, poscia che la festante compagnia terminato ebbe quell’inobliabile corpacciata, le spoglie tavole chetamente tolte fûr e s’incomenzò la tenzone de la quale, appresso sì longa prolusione, io anderò finalemente a darvi conto.
In fatti, mentre che i donzelli ai mai satolli astanti servivan d’ariento bacili e vassoi ricolmi di frustenghe, ciambellotti, fojate crescie, marzapani, scroccafusi, spumini, confetti et altri dilicati dolci, con rosolii e licori varii generosissimamente innaffiati, radunossi la giuria, da Ser Carlo medesmo retta et altresì composta da cinquo membri di bona fama et a la rettitudine assai accorti e li cui nomi io di rimembrar non schiferò: Madonna Simona, gentildonna compita, di maniere accorte et animo lieto e da le figlie di Zeus e di Mnemosine ispirata; Messer Matteo, di gazzette, almanacchi e fogli di notizie litterato e de le vicende del passato entusiasta esploratore; Messer Antonio, valentomo di multa sapienza et urbani costumi, de l’oriental Trinacria ossequente cittadino e de ’l disegno e de l’affresco gran maestro; Messer Renzo, nobilomo d’alto lignaggio e di varii tenimenti padrone, ch’a la piacente figura accoppiava quel fino discernimento e quella squisitezza di modi che da una bona educazione procedon; in fine, Messer Sergio, omo di grande gaiezza e grandissima nominanza, che sempre ’l disio tenea di far distesamente conoscer la sua Matelica a ’l mondo intiero.
Il primiero a scender ne l’agone et esibirsi dinanzi a sì egregia e competente giuria fu Mastro Rogerio, pintore santanatogliese di belgica provinienza, che talora socchiusi l’occhi tenea in senbianti di dormitore. Costui, al gentil cenno di Madonna Marilena, da l’apparente sopor destossi, salì sovra un apposito palco al centro de la sala ben disposto, afferrò un drappo e disvelò la tela. Il dipinto altro non era che ’l ritratto de la sua consorte, degnia e caritatevole donnetta con cui però assai avara era istata la sorte. Ella in vero avea una faccia grinza e butterata come persica alida da l’augelli vieppiù beccata, un’arruffata e segalina chioma, ’l naso adunco, un occhio enfiato e l’altro guercio. In somma era sì brutta che orror et abominio iniettava a chi mirarla osasse. Ma ’l bravo pintore a colpi di pennello addirizzato e racconciato avea ogni difetto di natura sì che la sua isposa di beltade parea genuina incarnazione. «Al di là de l’opinabil risultato, per giudicio mio, ’l coraggio anderebbe ugualemente premiato» disse Messer Antonio facendo le dame, sotto a l’onesto velo, sbilicar di risa.
Lo secondo contendente, Gentilino nel nome e ne’ modi, da Rocca d’Ajello venia e tenea la zazzera ben pettinata in cuffia, l’occhi vispi e certe labbra sì grosse e brunastre che parean di fegato salsicce. Costui, sendo ne l’uso di sgorbie, pialletti e scarpellini assai sperto, presentar volle un suo mirabile mosaico di cento e più tasselli d’acero, betulla, noce et altri preziuosi legni di perfettissimo intaglio lavorati e con malachiti, turchesi e lapislazuli ivi ingemmati. Veggendo de l’arte de la lignea tarsia cotale maraviglia, che inoppugnabilmente raro magistero addimostrava, i giurati in piè levaronsi e con un sonoro battimano l’ebanista congedaron.
Appresso fu la volta de lo terzo disfidante, tal Bandello, omo dabbene de l’alte terre maceratesi originario, de le regole de l’armonia sommamente istrutto e di varii stormenti sonatore. Sopito ’l giubilo che ne l’arcuate volte ancora ribombava, ’l musico levossi la beretta e ’l mantello di damasco chermisino ch’avea indosso, s’assise innanti a un clavicordo e dié a ’l sonar principio. Sì dilicatamente e con maestrevol modo i tasti ei toccava che ne l’aere subitamente si diffuse di concordevoli soni una melodia dolce, suave, persistente e limpia com’acqua che da sibillina fonte sgorga e per la qual cosa da Messer Carlo, Madonna Marilena e da l’auscultanti tutti con ripetute laude fu licenziato.
A trappassar poi da le note a li versi provvide in vece ’l Bertocca, un omaccion barbuto di folta barba bianca, poeta per diletto e beccaio di mestiero, lo quale coi frizzi, l’insulti e le provocazioni raggionto avea discreta gloria. Detto parolaio, attaccabrighe e pizzicaquistioni a tutti noto, nel palco salì suso e, senza temenza alcuna, con un venenosissimo sonetto la giuria disfidar volle. «Spirto gentil, che tante fiamme in un sol soffio hai spento, dunque è ver quel ch’io ora veggio e ora sento? Che ad udir sì stonate note, ’l mio inerme orecchio si dole e pate, come se fusse frigido di verno e calido d’estate. Spirto gentil, se troppo audace et offensivo sono, ne chieggio venia et umilemente perdono, ma istanco son di cianciar d’opre bone e d’arte, con omini che di ciò non hanno parte. Spirto gentil, qui de la coltura unico discernitor son solo, di certo non quell’imbrattatele, ’l romoroso musico o ’l legnaiuolo. Spirto gentil, non so se la pazienza ancor mi dura, a sopportar persin una giuria spergiura, e se l’opinion mia non ti fu grata, sol carta e penna d’oca i’ho sprecata, e a voi, gentil brigata, m’inchino e prostro, pria che m’accommiati forte ’l fischiar vostro». In udendo tali versi, mordaci ma oltr’ogni limite infamanti, i giurati e l’altri dimoranti priegar non si feron et a l’insolente poetastro dieron ciò ch’ei tanto s’attendea e con taglienti fischi accomiataronlo.
Così la tenzone ancor a longo innanti andò et, ad agumentar e di non poco l’aspera concorrenzia, seguitaron in su ’l palco mille et ancor più mille artisti, litterati, rimatori, incisori, cantori, giullari, poetanti, danzatori, filosofi, armaiuoli e d’istrane invenzioni balzani scovritori. E quando ’l sol già varcato avea de lo meriggio ’l cerchio et indi venuta era di diliberar l’ora, a lo improviso e con desto et ardito spirto, i figliuoli di Ser Carlo ’l silenzio rupper chieggendo udienzia e parola. Con debita riverenza inchinati in verso de la giuria e de’ circunstanti, in tono gentil et acconcia maniera, parlaron: «Padre, Madre, nobilissime Madonne et eccellentissimi Messeri, a ’l venerando cospetto vostro sommessamente ci prostriamo per invocar, di grazia, di poter anco noi a la tenzon participar» disse quello che Nicolò si nomava. «Lo che in animo abbiamo e che dirittamente addimandiamo non è limosina ma solo ’l disio di palesar la nostra opra là donde ciascheduno di voi, spectabili giurati, vagliar possa con fundamento s’essa sia o men d’apprezzamento degnia» aggionse suo fratello Filippo che, seppur minor d’etade, a favellar era più schietto.
«Figliuoli miei diletti, – ribatté Ser Carlo – quantunque da padre altro non anelo che vostra volontade satisfare, nondimeno, da giudice imparziale qual’oggi io sono, non m’aggraderebbe punto recar sì indebito favor che tradursi possa, per voi, in fruttuosi avvantaggi e benefizi e, pell’altri contendenti, in danni e perniciose ingiurie. E ’l sentenziar sovra sì ardua dubitazione duolmi non poco». In cotal guisa e sanza risposta rispuose, lasciando ’l convito tutto in una grandissima aspettazione. Ma doppo le quali larvali parole, Madonna Marilena, che nel leggiadro dire e ne’ pronti accorgimenti pari non avea, guatando fisamente ne la vista del marito, ad argumentar venne: «Mio amato Signore, nel rispettar la vostra autoritade e pur capendo de la vostra saggia prudenzia i motivi, io mi credo, anzi fermissima opinion porto, che codesto nostro certame, per quant’esso serio atteggiarsi voglia, in fondo è sol un giuoco». Ora avenne che, udite tali bone persuasioni, ’l magnanimo Ser Carlo a consentir benevolemente si dispuose e la giuria, sino allora mutola come a stormento a cui le corde siansi spezzate, ’l suo responso diè: «Imperciocché nulla osta a l’equo e regolar svolgimento de la tenzone, ai giovin Nicolò e Filippo di participar licenzia sia placidamente data».
Avuto ch’ebbe codesto benestare, l’impavido duetto con presti passi in su ’l palco montò et, a la dimanda «Qual adunque è la vostra opra d’arte?», Nicolò, levando alto la voce, rispuose: «La nostra opra, che immantanente vi presenteremo, nasce da un’uva. Un’uva da ’l granello picciolo, ’l grappolo serrato e la bacca bianca di verdoline sfumature venata, un’uva che più che niun’altra traluce, un’uva da la carnosa e croccante polpa e ’l cor de l’acinello zuccherino». E, infrattanto che i servidori a tutti l’isbigottiti ospiti distribuivan di varie fogge lindi bicchieri, Filippo, con la prestezza d’un ramarro, postillò: «La nostra opra è un vino».
«Un vino?» l’attoniti uditori in coro addimandaron. «Un vino?» i giurati issofatto riplicaron. «Sì – rintuzzò ’l focoso Filippo –, un vino novo, un vino bono, un vino che noi istessi, col prezioso ajuto di Mastro Roberto da Urbisaglia, che multissimo di uve, di mosti e di tini è intendente e la quale riputazione a voi tutti è nota, fatto abbiam con passione e tanta cura». «Ma da che mondo è mondo ’l vino non si face miga colla passione e colla cura, bensì con de l’uve nel torchio vigorosa ammaccatura» sclamò un rozzo oste di Matelica, Fiascozzo sopranominato, che di ventre tal mole tenea che un’amplia sedia a bracciuoli tutta occupava. E, al sentir sì fatte beffeggianti parole, ’l convito in licenziosi sghignazzamenti e scroscianti risa universalmente si risolse.
Ma affatto fastiditi od impauriti per così gran dileggio e col petto d’ogni viltà sgombro, perterriti i due fratelli ne la loro impresa perseveraron ragionando de’ modi onde meglio potar un tralcio, ordinar filari o governar la vigna per procurarne al fin per tutti giusta et optima vendemmia. Poscia, intanto che il di lor cugino Davide, giovine tanto brillante quanto concreto, a la giuria monstrava tavole, disegni et abbozzi di macchine che da Leonardo parean architettate, Nicolò e Filippo d’un tratto a favellar presero d’uve scelte, digraspamenti, reduzioni con carbonica neve, soffici premiture, flottazioni, fermentazioni col calor condizionate, travasamenti, colmature, clarificazioni, filtraggi, illimpidimenti et altre singulari diavolerie mai nomate ch’io istesso, pur sendo omo de amplissimi istudii ne l’umane lettere e ne le matematiche e pur avendo de la vita e de le cose amplia canoscenza, mai era inteso. E giù con altri vocaboli sì astrusi e disusati che Fra’ Calandrino, già mezzo ebbriaco e convinto che i due giovencelli posseduti fusser da lo dimonio, prontamente a ’l crocifisso mise mano e tutti in nomine patris et filii et spiritus sancti benedisse.
«Più che de lo ingegno codesta opra pare di mattezza figlia» disse per ischerzo ma con sottil malizia il dottor Battiston de’ Balsami, medico assai pingue e per natura tanto avaro, che da San Venanzo addipartito s’era precipuamente per banchettar a sbafo. «Inclito dottore, non sempre la mattezza è de ’l saver contrario» ebbe Nicolò a la risposta pronte le parole. Ma presto altri gentilomini, dai modi poco gentili et a beffeggiar più tosto avvezzi, ’l malevolo e soverchio quistionare berciando alimentaron e solo quando avenne che li bicchieri fin a l’orlo enpiti fûr e l’ospiti a bever finalemente accostar poteronsi, le ciance, li scherni e l’irrispettose burle d’un tratto s’acchetaron, cedendo ’l passo a multe laude et ad un bello e generoso parlamento.
«Codesto vino è celestiale e d’un brillante come mai s’era visto pria» disse con gran risguardo Messer Matteo ’l calice in contro de la luce rimirando. «De’ flori i profumi di ginestra, biancospino, acacia e matricaria tiene» commendò Messer Sergio posciach’ebbe profondamente inspirato e la bocca con la lengua tramestato. «E de’ frutti spandonsi suadentissimi effluvi di mela e di albicocca e di ben matura persica» seguitò Madonna Simona. A suon d’elogi più fiate li bicchieri recolmati fûr di quel vino chiaro, odorifero e suave lo quale taluni bevver a centellini e talaltri in un sol sorso tracannaron. Ma tutti, e dico tutti, grandissimo gusto ne provaron e le satisfatte smorfie di Messer Carlo e de’ la giuria intiera, di gaudio e compiacer segno evidente, altro non feron che confermarlo.
E quando l’ora venne d’eligere de la tenzone ’l vincitore, non ci fu istoria: infra tutte l’opre in gara, quel dionisiaco succo, nato da convenevole innesto intra la scienza novella e l’arte antica, era decisamente la più bona. Di tal maniera la nostra novelletta, in poche carte stesa, a conchiusione gionge et io a meditar lascio, ne la discrizione di chi legge, su la morale di codesta allegra narrazione e su come, per mercé d’un vino, col cor e colla ragion fatto, del premio e de l’onor Nicolò e Filippo divennero padroni.