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Hotel Gran Duca di York
GIALLO SIGNORILE

di Aurelio Raiola  

Voi non sapete cosa significhi girare di notte per le strade buie. Avanzare piano, ascoltare i propri passi, girarsi di scatto per sgamare l’ombra sgusciante, quella che calza le scarpe nostre e ci segue da quando abbiamo lasciato la luce un metro fa. Ma non è colpa vostra. Prima, non lo sapevo nemmeno io.

Mi han detto: «Non preoccuparti. Tu gira, passeggia, fa’ quello che vuoi ma fatti vedere». E io mi sto facendo vedere. Cammino al centro della strada, toh!
Vi chiedo scusa, non ci siamo presentati. Sono un agente di polizia locale, Sardonico Giuseppe, per servirvi. Mi spiego meglio: sono un vigile urbano volante. Faccio parte di un gruppo di manovra di elementi scelti per supportare picchi di operatività fuori media; ma, in realtà, siamo un gruppo di sfigati assunti a chiamata per tappare buchi quando capita. È una vitaccia, corriamo su e giù per lo Stivale, ma è la mia vitaccia. E, in fondo, mi piace. Non ce la farei a stare più di un mese nello stesso posto, non fa per me. Per fortuna stasera sono a Milano, e non avrei potuto chiedere di meglio. Non per niente, mi chiamano ’o Milanese. Dicono che sono precisino, ma è colpa mia se mi hanno cresciuto puntuale?
«Peppì, bell’ ’e mammà, ’o tiémpo è galantòmmo!»
«Ho capito, mammà, ma che significa?»
Non l’ho mai saputo, mia madre scelse troppo presto di andare a raccontare i proverbi agli angeli.

Adoro questa città. Adoro i tram in orario e le pensiline alle fermate dove c’è scritto dove e quando vai. Adoro la metro, dove mi scapicollo per non perderla mentre l’autoctono va piano perché sa che sta arrivando. Adoro le signore con la gonna d’inverno; adoro quando il cielo azzurro ti coglie a tradimento. Adoro questa via stretta tra due portici che mi accoglie, generosa e schiva, a due passi dal Duomo e dai turisti. Non adoro, invece, pattugliare; ma pattuglio, nonostante il buio.
«Dirigo il traffico, io, non sono un dannato pipistrello!»
In realtà, detto tra noi, non è che sia proprio buio; anzi, c’è la luce giusta, quel vedo-nonvedo che svela più del sole a mezzogiorno e mette il sale al rendez-vous. Ma sono solo e senza speranza di incontrare non dico l’anima gemella, ma nemmeno un’anima cugina di secondo grado.
Pensiamo a camminare, va’. Infiliamoci in questo passaggio degno di un film dell’orrore. Ma tanto, chi mi accoppa a me? Non sono mica una teenager infoiata. Oddio, un po’ infoiato lo sono; anzi, di più. Ma non teenager, ecco. Piuttosto, un teenager stagionato, buono per tutte le stagioni. Oggi addirittura in offerta speciale, dal toy boy al playboy, du gust is megl che uan! Ma chi ci crede.
E chi ci crede che sto camminando in una piazza medievale in pieno centro di Milano? Piazza dei Mercanti, ma tu guarda che bella. Un po’ austera e un po’ da brividi, a quest’ora, ma incredibilmente bella. Bisognerebbe girarci un film, altro che storie. Magari con Aldo, Giovanni e Giacomo. Comunque, andiamo avanti. In un altro passaggio stretto, un altro momento horror scansato.
«Maniaci di tutto il mondo, vi siete passati la voce che al Sardonico non la si fa?»
Niente, nessuna risposta. Solo il suono dei miei tacchi e l’eco. Attraversiamo la strada, proseguiamo. È divertente camminare sui binari del tram, nei pochi istanti in cui non passa. Ed è bello camminare in mezzo a questi palazzi in abito da sera dall’eleganza senza tempo. Mi sento un nobile. Spiantato, ma nobile. E cos’è quel palazzo in fondo? Pinacoteca Ambrosiana… ma che succede?
«Ehi, voi due, fermi!»
Niente, non mi sentono. Mi tocca correre. E correre forte, quel tipo la sta strattonando di brutto.
«Fermi tutti – pant pant… – polizia!»
Incredibile, ci hanno creduto. L’uomo si è staccato e la ragazza mi guarda inebetita. Lui scappa a sinistra ma lei resta ferma, le mani lungo i fianchi. Mentre io corro come Wile Coyote appresso a Beep Beep, sbatto un piede a terra come a scacciare un cane e mi fermo all’improvviso.
«Tutto bene, signorina?» chiedo con lo sguardo più apprensivo e languido possibile, ma la signorina mi guarda senza espressione in un punto vago tra gli occhi e l’attaccatura dei capelli, al punto da costringermi a toccare la fronte e sperare di avere un moscerino spalmato come un motociclista sul guardavia dopo uno sfortunato dérapage. Nessun moscerino, invece; peccato, almeno poteva esserci una ragione per quello sguardo fisso. Poi la signorina si sveglia e urla, con tutta la voce e gli occhi possibili: «Ma tu chi cazzo sei?»
«Sardonico Giuseppe, detto, modestamente, ’o Milanese. Sono della polizia locale volante. Ma chi era quel tipo, che le stava facendo?»
«Un vigile? Davvero? Oh mio Dio, non ci posso credere!»
«Ci deve credere, signorina! Noi, vigili volanti, siamo dappertutto».
«Dappertutto, eh? Che fortuna…»
«È veramente il suo giorno fortunato, signorina. Dove stava andando?».
È la mia serata, sissignori. La ragazza è carina, la serata fresca, e la penombra non fa più paura. Anzi, è un invito al tête-à-tête, quasi una prescrizione: Per guarire, Peppì, prendi due compresse al mattino e, la sera, un bel tête-à-tête. Una mano santa, te lo garantisco!
E prendiamolo, questo tête-à-tête, mai contraddire il medico di famiglia.
«Signorina – le chiedo, offrendole il braccio sinistro – dove posso accompagnarla?»
«Ma dove vuoi accompagnarmi, razza di…»
A naso non sembra affatto contenta, e a orecchio nemmeno, visto l’elenco di contumelie che snocciola furiosa come grani di un rosario perverso.
«Ma chi ti ha mandato, pezzo di…»
«Bella riconoscenza, signorina! Io corro a salvarla e…»
E finalmente si ferma. Oppure, sperabilmente, ha inghiottito la lingua. Ma continua a guardare fissa. Non in fronte, ma dietro di me. Fissa. E mi dà uno strattone.
«Corri, disgraziato!»
«Ma dove…»
La domanda è destinata a rimanere nell’aria perché l’indifesa ragazza – mora, un metro e settanta, accessoriata di cappottino, gonna nera e tacco 12 – s’invola e mi convince a seguirla, aiutata non poco da una serie di confetti di piombo diretti, se non a noi, al muro del palazzo di fronte che incassa indifferente.
Ora, non so se avete mai visto un Sardonico correre per la paura. No? Vi basti sapere che la signorina sconosciuta – «A proposito, non so ancora il suo nome!» – sta facendo sci nautico aggrappata alle mie spalle.
«A sinistra, a sinistra!» grida come un’ossessa, e come se non bastasse mi dà un pizzicotto sul deltoide sinistro. Naturalmente giro a sinistra, anche perché a destra e di fronte ci sono solo le mura d’angolo di un palazzo dall’aria tardo monacale, assolutamente refrattarie a un atterraggio morbido. Corro ancora, dritto per dritto, e mi infilo – anzi, ci infilo – nel palazzetto giallo signorile dell’hotel Gran Duca Di York, cercando di rallentare quel tanto per non sbattere sulle porte a vetro che, devo ammetterlo, si aprono all’istante con grande professionalità.
«I signori desiderano?»
La domanda arriva da un uomo cortese in giacca scura che ci guarda perplesso.
«Una stanza! Desideriamo una stanza, grazie».
La signorina molla le ganasce dalle mie spalle e consegna rapida al portiere una carta d’identità: Germana Rizzo, e mi chiede con voce flautata: «Il tuo documento, caro…»
La guardo sorpreso e consegno il portafogli con i documenti al portiere che scuote la testa pensando a due amanti travolti da un insolito destino nel bizzarro ansimare del posto.
«Ehm… niente bagagli?»
«Smarriti in aeroporto, ma arriveranno domattina – cinguetta la signorina, consegnando la mia carta di credito –. Ma per consolarci del contrattempo prendiamo la camera superior. Vero, carooo?»
Sto per implorare: «No, ’a carta, no!», ma è troppo tardi, e le colonne gemelle in marmo rosa e i divani in raffinata pelle verde della hall mi costringono a un silenzio dignitoso.
Il portiere ci consegna una tessera magnetica con uno sguardo complice: «Anche i documenti li troverete pronti domattina», e noi saliamo, non prima di aver messo in tasca un’invitante mela Stark in omaggio sul bancone.
La stanza è da urlo, con una carta da parati ton sur ton giallo signorile che ne allarga i confini e scalda il cuore; ma l’urlo di Germana, la cui voce ha perso ogni flautezza, interrompe la mia modesta riflessione sul rapporto tra colore e psiche: «Ora mi dici chi cazzo sei, che cazzo vuoi e chi cazzo ti ha mandato!»
«Ehiehiehiehiehi, sono un poliziotto locale! Stavo pattugliando la zona e ho visto quell’uomo che ti stava maltrattando…»
«Un poliziotto locale? Da quando i vigili urbani pattugliano a quest’ora, eh?»
«Non lo so, e lasciami il collo che mi fai male! Sì, l’ho trovato strano anch’io ma non metto in discussione gli ordini. Tu, piuttosto, chi diavolo sei?»
Non risponde e mi scruta negli occhi come si guarda un cefalo in pescheria per valutarne la freschezza, poi va alla finestra e guarda fuori, seminascosta dalla tenda e dalle fronde degli alberi sul terrazzino.
«Sono in tre. Uno a ore 12, uno a ore 13 e un altro sta entrando nell’hotel a ore 6».
«Siamo in una botte di ferro – commento – sono le 23!»
Rizzo mi guarda come un cefalo andato a male, poi si gira di nuovo a guardare fuori mentre sfila una pistola dalla cintura.
Passano alcuni minuti durante i quali mi pongo le grandi domande della vita: chi siamo? Da dove veniamo? Ma, soprattutto: che fine facciamo?
«Se chiamassimo la polizia?» chiedo.
«Sono io la polizia» risponde.
«Se ti dico che in questo frangente increscioso preferirei un poliziotto tipo armadio estate-inverno, ti offendi?»
TOC TOC TOC
«Aprite, polizia!»

«Apri, Sardonico» comanda la dolce Germana, puntando la pistola verso la porta. Io mi accosto allo stipite, giro piano la maniglia e posiziono il piede sinistro a mo’ di zeppa prima di aprire uno spiraglio.
«E tu chi cazzo sei?» mi urla un energumeno dopo avermi spinto all’indietro e mollato un cazzotto all’altezza del diaframma che mi toglie il respiro.
«Ma vi presentate tutti così a Milano?» grido piano per non far rumore, anche perché l’energumeno mi trascina per il bavero per il piccolo disimpegno fino ad arrivare nella camera dove Germana è seduta sul letto con le gambe accavallate e le mani unite a stringere, tremante, la pistola.
«Ispettore, avevo tutto sotto controllo!»
«Ne sei sicura, bellezza?» chiede l’energumeno avvicinandosi, ma senza lasciare la presa dal mio bavero.
«Sì, Mazzeo, sì. Lui non è nessuno».
«Non è nessuno? Dimostramelo» dice, porgendole una pistola.
Dagli occhi stretti per il dolore vedo Germana posare sul letto la sua pistola e prendere quella dell’ispettore.
«Non preoccuparti, è pulita» sottolinea Mazzeo.
“Almeno non morirò di tetano” penso con il mio rinomato senso dell’umorismo, mentre Rizzo la solleva per puntarla verso di me.
«Mi dispiace, Giuseppe, la vita è così».
«La vita è così? Non hai niente di meglio da dire? – biascico. – Io ti salvo da un tentativo di stupro e tu mi ammazzi con una battuta di merda? Ma io non ci posso credere…»
TOC TOC TOC
«Aprite, polizia!»

«Apri, Rizzo» comanda il perfido ispettore Mazzeo, puntando la pistola verso la porta. Germana mi prende per il bavero – ma è una mania! – si accosta allo stipite, gira piano la maniglia e posiziona il mio piede sinistro a mo’ di zeppa prima di aprire uno spiraglio.
«E tu chi cazzo sei?» mi urla un altro energumeno dopo avermi spinto all’indietro e mollato un calcio all’altezza dello stinco destro che mi costringe a saltellare come un fenicottero incontinente. Poi vede Rizzo e le chiede, tirandomi per le orecchie per tutto il corridoio fino in camera: «Ci conosciamo?»
«Non lo so, ispettore Ferraro, ma di certo conosci me» sibila Mazzeo, uscendo dal bagno pistola in mano.
Mezzanotte di fuoco. Alla mia sinistra, l’ispettore Ferraro che punta una pistola verso Mazzeo; e, di fronte, l’ispettore Mazzeo che punta la pistola verso Ferraro. Momenti di gravida tensione. I due si guardano negli occhi per secondi che sembrano minuti. Io non mi reggo in piedi e sto per accasciarmi al suolo, ma una forza ostinata e contraria mi afferra per l’orecchio destro e mi rimette in piedi.
«Getta la pistola, Ferraro, oppure dà l’estremo saluto al Milanese». Avevo dimenticato la poliziotta, che ora mi punta una pistola alla tempia.
«Strano – rivela Ferraro – Lanza mi aveva assicurato che eri una a posto. Allora non siete amici come diceva».
«Di cosa sta blaterando, dolcezza?» ringhia Mazzeo, mentre la mano armata oscilla impercettibilmente da Ferraro a Rizzo e ritorno.
«Ma è una convention di colleghi! – dico con una vocina alla Fracchia. – A questo punto io toglierei il disturbo…»
«Tu non vai da nessuna parte!» ordina Mazzeo, prendendo una decisione e puntando la pistola verso di me.
TOC TOC TOC
«Aprite, polizia!»

È un attimo. Io lancio la mela verso Mazzeo e m’involo nel disimpegno per aprire la porta, ormai assuefatto al mio ruolo di maggiordomo. Mazzeo spara e coglie in pieno un televisore a 42 pollici da parete che era alle mie spalle e che scoppia come due bombe Cavani. Ferraro spara un proiettile che si ficca nella mano di Mazzeo che urla a Rizzo: «Ammazzalo! Ammazzalo!», mentre un terzo energumeno dà una spallata alla porta che mi crolla in faccia causandomi una commozione tale da farmi piangere lacrime napulitane.
«E tu chi cazzo sei?» chiedo, avendo imparato il bon ton del luogo.
«Agente Matteo Verminati, siete tutti in arresto per schiamazzi!»

(DISCLAIMER: di tutto quello che sta per succedere non troverete traccia nei verbali della Polizia di Stato, per cui dopo la lettura inghiottite il racconto e acqua in bocca. O un amaro, se preferite.)

Mazzeo sguscia dal terrazzino, minacciando di farmela pagare e accusando l’agente Rizzo di alto tradimento; Rizzo rivela di essersi infiltrata in un’operazione antidroga con l’incarico di indagare sull’ispettore Mazzeo e i suoi sospetti traffici; Ferraro maledice di essersi fatto scappare Mazzeo ma si complimenta con il sottoscritto per aver interpretato alla perfezione il ruolo del vigile volante tonto; io mi complimento con Ferraro per aver interpretato alla perfezione il ruolo del supervisore stronzo e per non avermi messo al corrente dei rischi che avrei corso.

«Sei preoccupato dalle minacce di Mazzeo?» chiede Germana con la stessa voce flautata di cui aveva dato mostra con il portiere di notte (a proposito, era stato lui a chiamare la polizia, insospettito dai due avventori senza bagagli).
«Non mi preoccupo, Rizzo, ’o tiémpo è galantòmmo!» rispondo con forzata voce stentorea, mentre Ferraro esce recriminando sulla gastrite, malattia professionale sbirresca.
«’O tiémpo è galantòmmo? E che significa?» chiede Germana, finalmente distesa. E bella.
«Che il tempo è un gran signore e riconosce i meriti. Mia madre lo diceva sempre, anche se spesso a sproposito».
«Ma ce l’hai con me?»
«Solo per avermi insultato, malmenato e puntato contro una pistola? Naaa…»
«Ehm… posso farti una domanda?»
«Spara! Ma non prendermi alla lettera…»
«Perché ti chiamano ’o Milanese
«Perché sono preciso…»
«A chi vuoi darla a bere, Sardonico…»
«No, ma davvero, io da piccolo ero un pignolino…»
«Ancora con questa storia? Guarda che a me non piacciono le bugie».
«Occhei, va bene, mi chiamavano così perché mammà mi abboffava di cotolette».
«Alla milanese?»
«Azz, sei una sveglia, Germa’!»
«Fai poco lo scemo, anch’io ne vado pazza. E se nelle prossime due ore riesci a stare zitto ti porto in un posto dove la fanno speciale».
«Ma non potremmo farcela in camera?»
«La cotoletta?»
«Pure… perché no?»